di Danilo Breschi
Nel suo più recente libro (Il Muro che cadde due volte, Solferino, Milano 2019, pp. 192, € 16,00) Antonio Polito, vicedirettore del “Corriere della Sera”, ha inteso raccontare le tracce lasciate dalle macerie di quel muro che a Berlino si sbriciolò in maniera tanto inattesa quanto repentina a partire dalla sera del 9 novembre del 1989. Trent’anni fa esatti. Tracce importanti da raccontare perché quanto mai comuni, ampiamente condivise «da tanti miei coetanei che videro morire definitivamente la grande illusione cui avevano appena fatto in tempo a partecipare, quella del comunismo, ma poiché non potevano vivere senza un’illusione la sostituirono al più presto con un’altra. […] Ciò che periva “era un credo nella salvezza della storia” e la sua scomparsa poteva essere compensata solo da nuovi credi: scegliemmo la democrazia liberale, il mercato, l’Europa unita» (pp. 10-11).
Così esordisce Polito in questo racconto così sincero da far risultare talora ingenui certi giudizi, se visti con l’occhio del senno di poi, ma anche dello storico di ieri non fazioso e di chi da quel mondo comunista non fu mai coinvolto, né ideologicamente né emotivamente. Si legga, ad esempio, di quando Polito, giunto a festeggiare il Capodanno 1990 in una Berlino Est senza più Muro, racconta di aver vissuto un’esperienza di soggiorno di cui due ricordi sopravanzano tutti gli altri: il freddo in appartamenti non riscaldati e la fame in una città scarnificata dalla scarsità di viveri. Scrive: «Un’altra amara scoperta furono i negozi di alimenti, ammesso che si potessero chiamare tali: avevano scaffali semivuoti sui quali abbondavano solo delle salsicce di un preoccupante rosa pallido: zero verdura o frutta» (p. 32). Così che Polito conclude: «la penuria fu proprio la principale ragione per cui il comunismo crollò» (p. 33).
Considerazioni che possono sbalordire chi conosce la tragica storia del comunismo sovietico ed euro-orientale, quasi puerili esse appaiono, ma testimoniano dell’estrema onestà intellettuale dell’Autore e consentono al lettore di oggi, che magari in quel 1989 non era nemmeno ancora nato, di avere un’idea di quel “passato di un’illusione” su cui François Furet ha scritto un libro fondamentale, illusione che ammaliò e appassionò, coinvolse e travolse le vite di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Oltre che dello storico Furet, Polito si è avvalso di un grande filosofo, Karl Popper. È infatti l’autore della Società aperta e i suoi nemici e della Miseria dello storicismo a consentire oggi a Polito di diagnosticare natura ed effetti dell’alterazione ideologica da cui è stata afflitta la sua giovinezza e la sua prima maturità, così come quella di innumerevoli suoi coetanei. Tutti vittime di una presunzione intellettuale, come egli stesso scrive, ricorrendo alle parole dello stesso Popper: «attratti dal prestigio di far parte di una “cerchia di iniziati” in grado di fare profezie, folgorati da “una romantica combinazione di egoismo e collettivismo” […], ciò che ci muoveva era “l’idea romantica dello splendore della scena della storia nella quale noi fossimo gli attori”, perché la nostra formazione e il nostro tempo, la grande eredità del ’68, ci avevano “abituati ad operare tenendo d’occhio il pubblico”», così che, «ripensando a quegli anni, non possiamo negarci che la formula cui rispondeva la nostra militanza politica fosse più o meno questa: “Ciò che realmente conta sono gli individui umani, ma con ciò intendo dire che io sono quello che conta di più”» (pp. 21-22).
Non pago, Polito affonda ancor di più il coltello nella piaga di un’intera generazione: «Le masse popolari e la loro volontà di riscatto ci erano apparse dunque il miglior veicolo disponibile per stare nella corrente della storia, […]. Per questo eravamo comunisti. Per la nostra antropologia ciò che contava […] era insomma “esserci”, marcare una “presenza”. Bramavamo di vedere la storia in movimento e pretendevamo di farne parte. Il marxismo ci aveva offerto l’illusione più inebriante di riuscirci, […] questa è l’unica spiegazione plausibile del fatto che gente come me, che quindici-venti anni prima aveva aderito con lo stesso entusiasmo al movimento che provocò la caduta di tutti i partiti comunisti dell’Occidente, compreso il nostro: il liberalismo. Non era opportunismo, o almeno non solo; era il fascino di un nuovo “storicismo”, generato dall’idea hegeliana per cui ciò che è reale è sempre razionale, e che dunque bisognasse stare dalla parte della ragione per aver ragione» (pp. 22-23).
Ecco condensato in poche righe il nocciolo della tesi principale esposta in questo libro e tutto il suo valore in termini di interpretazione di un intero cinquantennio, quello che si aprì con la fine degli anni Sessanta e che ora giunge a compimento. Una parabola che, al termine del secondo decennio del ventesimo secolo, possiamo considerare conclusa? Forse i futuri storici proporranno altre periodizzazioni. Senz’altro le date dell’11 settembre 2001, attacco del terrorismo islamico all’impero americano, e del biennio 2007-2008, inizio della grande recessione economica protrattasi in Europa per circa un decennio, hanno segnato l’inizio di un’altra fase, il disegnarsi di una nuova ondata sulla cui genesi, natura ed evoluzione ben si sofferma un altro libro appena uscito, a firma dello storico Marco Gervasoni (La rivoluzione sovranista. Il decennio che ha cambiato il mondo, Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2019, pp. 204, € 14).
Quel che ci suggerisce l’agile racconto di Polito è una spiegazione di perché possa valere l’espressione “neoliberalismo” (o “neoliberismo”) per definire l’ideologia che inebriò le classi dirigenti occidentali, americane ed europee, nel corso degli anni Novanta. Questo è stato, in ogni senso, l’ultimo decennio del “secolo breve”, da intendersi come epoca mobilitata da un’utopia politica universalistica. Probabilmente non si trattò tanto della vittoria di Reagan e della Thatcher, delle loro idee di liberalismo, o meglio: furono le loro idee, sicuramente vincenti sul comunismo, ad essere riprese da coloro che, a sinistra, ebbero l’urgentissima necessità di sostituire un’illusione con un’altra, per restare nel solco dell’ipotesi interpretativa suggeritaci da Polito. Riprese e trasformate. Ed ecco il decennio dei Clinton, Blair, Schröder, ma anche D’Alema e Prodi, della “terza via” di Giddens e della “democrazia cosmopolitica” di Habermas, dell’Unione Europea come grande spazio di autogoverno post-statuale di una società civile transnazionale. Le teorie dello Stato minimo e del libero mercato autoregolantesi vennero assunte anche ad Est, Russia in testa, come nuovi dogmi, altrettanto granitici e utopistici di quelli precedenti: la società senza classi e l’economia pianificata. Furono però teorie private del fallibilismo popperiano e caricate di utopismo e decontestualizzate, come se valessero per ogni tempo e ogni luogo. C’era persino un di più di impeto palingenetico, secondo Polito, e fu il lascito marxista sulle spalle incurvate di una sinistra ritrovatasi, spesso suo malgrado, improvvisamente postcomunista.
Lo spiega bene Timothy Garton Ash nel nuovo capitolo aggiunto come bilancio a trent’anni di distanza al suo celebre resoconto del 1990, in cui raccontava da testimone oculare la rivoluzione oltrecortina dell’anno precedente (T. Garton Ash, 1989. Storia della primavera europea, Garzanti, Milano 2019, pp. 240, € 15). Due passaggi sono quanto mai eloquenti. Il primo: «Come si poteva costruire il capitalismo in un paese praticamente privo di capitale? […] La privatizzazione ha […] messo gran parte delle proprietà statali nelle mani di entità locali attraverso un processo tanto torbido quanto rapido. […] La mancanza di un forte impianto giuridico, equamente amministrato da una magistratura indipendente, si è particolarmente evidenziata nella frenesia della privatizzazione. […] Ne è derivato un processo profondamente corrotto, in cui le persone in posizioni di rilievo – o quanto meno dotate di buoni agganci – nello stato-partito comunista si sono impadronite di grandi beni, con le buone o con le cattive» (pp. 196-198).
Il secondo: «Tutti i populismi europei di oggi si nutrono della rabbia suscitata dall’odierno liberalismo, ridottosi dopo il 1989 a una versione piuttosto estrema di liberismo puramente economico, privo di quell’uguale considerazione e rispetto nei confronti di tutti i cittadini», che ha sfigurato il liberalismo, rendendolo «monodimensionale» con un impatto «particolarmente pesante nell’Europa postcomunista, caratterizzata dal passaggio brutale al capitalismo, da un senso di ingiustizia storica e da società disabituate ad alti livelli visibili di diseguaglianza» (p. 204).
Qualcosa di analogo accadde ad Ovest, dove la socialdemocrazia subì una metamorfosi, e la sinistra inseguì la destra angloamericana di quei tempi e la superò nell’idea che la globalizzazione potesse agire come una sorta di meccanismo al contempo efficiente produttore ed equo redistributore di ricchezze e possibilità sociali, in nome di una società post-statuale e transnazionale. Una vera e propria euforia contagiò molti socialisti europei e democratici americani a partire dall’autunno 1989, che per altri versi fu una meravigliosa e forse irripetibile stagione di liberazione e promessa di radioso futuro. Scrive sempre Garton Ash che la miseria materiale e morale che incombeva da decenni come una cappa mortifera ad Est aveva finito per mitizzare tra polacchi, ungheresi, tedeschi orientali, rumeni, cechi e slovacchi, ma anche russi e ucraini, il modello sociale dell’Ovest, senz’altro florido e in crescita, e soprattutto libero. Aveva inoltre sovraccaricato di aspettative così elevate e numerose una Comunità europea che, alla prova dei fatti, mai avrebbe potuto davvero soddisfarle.
È su questa delusione che s’innesta il mutamento politico occidentale degli ultimi anni, ma non dobbiamo peccare di determinismo storico. Non tutto è figlio del 1989 e del modo in cui è stata gestita quella breve ma intesa stagione di libertà. Anzitutto non va dimenticato un altro 1989, quello cinese, e come dalla rivolta di Tienanmen la Cina trasse una lezione che altri hanno poi seguito, tanto che oggi appare, più e meglio di ieri, praticabile il connubio tra sviluppo economico e restrizione delle libertà civili e politiche. E poi ci sono le due date spartiacque sopra ricordate, il 2001 e il 2007, che hanno messo definitivamente in crisi l’utopia di una globalizzazione intesa come sostituzione del conflitto e della guerra tra Stati con una pacifica competizione economica tra multinazionali e l’autoregolazione dei mercati finanziari. Più rapidamente e più intensamente il mondo si connette, più sale il livello dello scontro, anche perché il nuovo ordine mondiale ipotizzato nei primi anni Novanta avrebbe richiesto una potenza egemone introvabile per un ruolo insostenibile da chiunque, Stati Uniti compresi. Il mondo è ancora troppo vasto per essere abbracciato da un impero globale, e almeno su questo il liberalismo può trarre un sospiro di sollievo. Il tema non si esaurisce certo qui. Ci torneremo.
(fine prima parte)
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