di Alessandro Campi*
Nel giorno che celebra la Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato tutti gli italiani all’unità nazionale e alla necessità di uno sforzo collettivo per lasciarsi alle spalle, il prima possibile, le conseguenze negative della pandemia. Nella stessa occasione, il centrodestra ha mobilitato i suoi simpatizzanti contro il governo e ha sfilato nelle piazze italiane nel segno del tricolore. In realtà non c’è alcuna contraddizione, a dispetto delle polemiche che hanno accompagnato il secondo evento e dell’accusa rivolta alla destra di aver rotto il clima di concordia civile che per definizione dovrebbe caratterizzare la ricorrenza del 2 giugno.
Il Capo dello Stato ha un dovere di rappresentanza istituzionale e simbolica: le sue parole sono per definizione rivolte a tutti. E non possono essere, specie in un momento come questo, che parole (peraltro nel suo caso assai sincere e sentite) piene d’esortazione e di speranza, anche se Mattarella non si è limitato a questo.
Le forze politiche sono per definizione una parte che finge di parlare a nome del tutto. Che la destra in senso lato nazionalista punti a monopolizzare la festa nazionale per eccellenza non rappresenta una stranezza, considerato il suo dna ideologico. Sarebbe al contrario strano se la destra lasciasse alla sinistra (che su questo terreno ha certamente meno titoli) anche il monopolio del patriottismo. Così come è del tutto fisiologico che l’opposizione punti a far cadere il governo in carica. Così come è normale farsi portavoce di un disagio economico e sociale che esiste realmente, che probabilmente è destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi e che è bene che trovi come valvola di sfogo dei partiti presenti in Parlamento piuttosto che qualche improvvisato capo-popolo che spinge all’insurrezione contro lo Stato.
I problemi semmai sono altri. Quale seguito verrà dato, da qui ai prossimi mesi, agli inviti del Colle all’unità tra italiani e ad una maggiore collaborazione tra tutte le componenti politiche e sociali del Paese a difesa del bene comune? Quanto è politicamente credibile (e quanto è da considerarsi duraturo) questo sfoggio – che rischia di essere più melodrammatico che retorico – di bandiere tricolori e di commoventi dichiarazioni d’amore per l’Italia che sentiamo oramai da settimane? Quanto la destra cosiddetta ‘sovranista’ riuscirà a tradurre in un programma d’azione e di governo coerente il patriottismo così gagliardamente esibito nei comizi dei suoi leader anche ieri?
“Passata la festa, gabbato lo santo” è un motto tra i più famosi (e probabilmente tra i più veritieri) della tradizione popolare italiana. Ciò significa che l’offesa peggiore che possa farsi alle parole di Mattarella è di considerarle legate al suo ruolo ufficiale e alla circostanza drammatica in cui sono state pronunciate: oggi le si loda come commoventi, domani le si dimentica come fanno i figli con le raccomandazioni dei genitori troppo apprensivi. I politici italiani sono purtroppo specialisti nell’unanimismo lacrimevole a beneficio di telecamera spacciato per senso dello Stato e rispetto per le istituzioni.
La nazione, al di là dei simbolismi che la rendono riconoscibile e che certamente possono contribuire ad accrescere il senso di appartenenza ad essa dei membri di una comunità, è soprattutto un patto politico-civile: si sta insieme non solo per il passato che si condivide, ma per il futuro che si intende costruire. Gli italiani – e le sue classi dirigenti (non solo quella politica) – hanno un’idea comune e condivisa del domani che vogliono per sé e per chiunque abbia (o aspiri) ad avere la cittadinanza italiana? In un mondo di nazioni che si annuncia sempre più competitivo, anche come effetto della pandemia, c’è chiarezza sugli interessi – a partire da quelli economici – che per l’Italia debbono essere considerati vitali e del posto che quest’ultima deve occupare all’interno della comunità internazionale (anche in termini di amicizie e alleanze)? Visto che si parla tanto di ricostruzione, quali direzioni strategiche quest’ultima dovrà assumere per non risolversi, come già è capitato nel passato, nel solito spreco di ricchezza pubblica in vista di progetti impossibili o inutili che per essere tali hanno solo accresciuto la corruzione, l’affarismo e gli appetiti della criminalità organizzata?
Gli inviti del Capo dello Stato, a meno di non considerarli puramente paternalistici e dettati dal sentimentalismo, impongono risposte politiche chiare (e sperabilmente rapide) a queste domande. L’unità nazionale non è solo un valore, un richiamo nel segno della responsabilità o un atto di volontà: è la direzione di marcia collettiva che un Paese concretamente persegue, sono le scelte che la politica opera nella convinzione che servano a garantire ai propri cittadini il massimo possibile dell’equità e del benessere. Per dirla diversamente il vero patriottismo non è quello che nasce nei momenti di paura e sconforto, quando pur di non sentirsi soli ci si attacca a qualunque cosa, e non è nemmeno quel “senso del noi” zuccheroso e svenevole alimentato con furbizia dal marketing pubblicitario: si tratta, in questi casi, di manifestazioni di orgoglio collettivo puramente occasionali ed effimere. Ma è quello che tiene unita una collettività giorno dopo giorno a condizione però che quest’ultima possieda un progetto politico comune e un orizzonte storico condiviso. L’Italia odierna si trova in questa condizione? Lo si spera, ma i dubbi non mancano.
Quanto alle manifestazioni indette ieri dal centrodestra, che tante polemiche hanno suscitato anche per la violazione delle norme vigenti sull’obbligo di distanziamento fisico nei luoghi pubblici, dovrebbero persino essere salutate con favore visto che lo si è sempre accusato, sin dai tempi del Berlusconi trionfante, di essere un blocco politico sostanzialmente estraneo ai valori fondanti della Repubblica e alla sua storia. Quanto a Salvini, meglio il suo iper-orgoglio da italiano odierno che i propositi secessionisti che erano della Lega (coi suoi leader che sino a poco tempo fa sputavano sul tricolore). Opportunismo? Ma quest’ultimo in politica non è necessariamente una colpa: si coglie l’opportunità data dalla cronaca o dalla storia per diventare qualcosa di diverso da ciò che si era. Se si crede alla conversione patriottica della sinistra a lungo internazionalista, pronta a denunciare come un’esibizione di militarismo proprio le parate del 2 giugno, perché pensare che quello della destra ‘sovranista’ sia in sé qualcosa di eversivo o di inaccettabile dal punto di vista democratico?
Il problema, come accennato, è semmai un altro: come tutto questo richiamarsi all’Italia, alla sua storia e ai suoi simboli possa tradursi in un programma di governo realmente alternativo a quello di Conte e della sua maggioranza. Il problema del ‘sovranismo’, a partire da quello italico, non è tanto la pericolosità dei suoi assunti, quanto la vaghezza dei suoi obiettivi pratici. Quando ci si appella alla sacra difesa degli interessi nazionali, sembra di aver detto tutto in realtà non si è detto niente: si è solo all’inizio di un discorso tutto da fare.
Ma non basta. La credibilità come forza (alternativa) di governo va naturalmente di pari passo con la credibilità dei compagni di strada che ci si sceglie. Un blocco politico che ha, sondaggi alla mano, il 45% dei consensi elettorali (e che potrebbe dunque essere maggioranza virtuale in caso di elezioni), dovrebbe smetterla con gli atteggiamenti equivoci che peraltro rischiano solo, alla lunga, di danneggiarla.
Ciò significa che se si tiene all’Italia, come si ripete in ogni dichiarazione pubblica, non si può concedere nulla ai demagoghi o agli umori negativi che rischiano, se sostenuti e alimentati, di sfasciarla definitivamente. La rabbia sociale, che indubbiamente sta montando per via dei disagi economici, non va alimentata, semmai gestita razionalmente e incanalata politicamente, prima che sfugga di mano anche a chi pensa di cavalcarla. Forze politiche che hanno una storia e responsabilità istituzionali non possono insomma confondersi con le rivolte da strada – per ora pittoresche, in prospettive pericolose – alimentate da semplici avventurieri o da personalità in cerca di un palcoscenico. Diversamente, a dispetto d’ogni sfoggio di patriottismo, rischia di perpetuarsi la condanna storica della destra italiana: essere maggioranza nel Paese ma non riuscire a governare. Non perché qualcuno trama nell’ombra, ma perché non si riesce ad essere credibilmente all’altezza della responsabilità che comporta governare un Paese grande e complesso, per quanto sgangherato, come l’Italia.
*Editoriale apparso sui quotidiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” del 3 giugno 2020
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