Roland Benedikter, sociologo italo-austriaco, è European Foundation Fellow presso l’Orfalea Center for Global and International Studies della University of California, Santa Barbara. Svolge altresì la sua attività presso lo Europe Center della Stanford University. Si è occupato dei processi di “cambiamento sistemico” e delle relazioni euro-atlantiche. L’intervista sugli effetti globali degli attentati dell’11 settembre 2001 è stata realizzata lo scorso 7 settembre.
Professor Benedikter, Lei lavora da molti anni negli Stati Uniti, come Professore di Sociologia Politica, prima a Washington e New York, dal 2009 alla Stanford University in California. Il suo ambito di ricerca è il “cambiamento sistemico” che stiamo vivendo su scala globale. Che significato attribuisce, in quest’ottica, all’11 settembre 2001?
L’11 settembre è stato un evento storico che ha senza dubbio cambiato il mondo, e che ancora sentiamo nei suoi effetti. Gli eventi di allora hanno dato inizio a un cambiamento globale, che ha portato a una nuova costellazione mondiale non solo politica, ma anche economica, culturale, religiosa. Le società moderne nell’era della globalizzazione funzionano attraverso l’interconnessione tra queste quattro logiche strutturali o discorsi tipologici, che sono per l’appunto la politica, l’economia, la cultura e la religione (alle quali si aggiungono le logiche e i discorsi rappresentati dalla tecnologia e dalla demografia, che sono di crescente importanza). Bene, l’11 settembre, a dimostrazione del suo significato simbolico dirimente, ha contribuito a trasformare tutte e quattro queste dimensioni delle comunità mondiali; soprattutto ha modificato l’interconessione strutturale, ideologica e funzionale tra di loro.
In che senso esattamente?
Possiamo identificare quattro dimensioni, quattro assi di trasformazione.
Politicamente l’11 settembre ha segnato l’inizio della fine della supremazia unilaterale degli Stati Uniti nel mondo. Ne ha determinato il coinvolgimento in due guerre molto costose. Ha insomma prodotto la fine del “nuovo ordine globale” proclamato da Herbert Spencer Bush, il padre di George Bush, dopo la caduta del muro di Berlino. Il “nuovo ordine globale” partiva dalla visione di un mondo dominato da un’unica e benevola superpotenza. Oggi cominciamo a vivere in un mondo multipolare, dove potenze emergenti come la Cina o la India, ma anche alleanze di diverso tipo tra stati in parte molto diversi, stanno formando poli alternativi agli Usa.
Economicamente, invece, l’11 settembre coincide con l’inizio della fine del “neoliberalismo”, processo che è giunto a compimento con la crisi finanziaria globale del 2007-2010. Da allora nuove forme comunitarie di capitalismo stanno emergendo in tutto il mondo, creando un campo economico e finanziario molto più diversificato e pluriforme.
E negli altri due campi d’azione, della cultura e della religione?
Culturalmente, l’11 settembre marca l’inizio di quello che viene oggi chiamata l’era delle “modernità concorrenti” (Martin Jacques), vale a dire un mondo non più dominato dall’idea di modernità propagata dal mondo occidentale, ma da visioni culturalmente molto diverse di che cosa è “moderno”, e quale sia la forma ideale di vita. Paesi come ad esempio la Cina hanno raggiunto un livello tecnologico simile all’Occidente, ma non credono che “moderno” sia equivalente a individualismo, libertà e democrazia, bensì a collettivismo, stabilità e armonia. Dall’altro lato, non possiamo nascondere che se gli attentati terroristici al World Trade Center hanno dato vita alle idee sullo “scontro tra civiltà” di Samuel P. Huntington, hanno anche favorito la rinascita di quella che Robert N. Bellah ha chiamato la “religione civile” dell’Occidente, vale a dire la presa di coscienza che valori come libertà e democrazia sono elementi “essenziali”, di fatto quasi-religiosi, che vanno difesi a ogni costo. Ma il punto forse più importante è che l’11 settembre segna l’inizio della fine dell’era “postmoderna”, cioè di quella miscela di secolarismo ed esagerato nominalismo culturale che sin dagli anni ottanta, a partire dalla Francia e dalla Germania, aveva interpretato il mondo come un puro costrutto della mente umana, negando ogni forma di realismo e propagando come Illuminismo quella forma di radicale criticismo denominata “decostruttivismo”, che insieme al gusto per l’ironia dominava il discorso e la discussione pubblica nei Paesi occidentali. Gli attacchi dell’11 settembre ha cambiato questo “paradigma” culturale.
Mi ricordo come una settimana dopo gli attacchi, l’intellettuale newyorkese Roger Rosenblatt pubblicò un saggio sulla rivista Time titolato “L’era dell’ironia volge alla fine. Non faremo mai più l’errore di non prendere le cose sul serio”. In questo saggio, Rosenblatt cercava di dimostrare come il mondo non era fatto di soli costrutti mentali, ma come il dolore e il tormento causati dagli attentati fossero le più immediate realtà interiori, “essenziali” o addirittura “sostanziali”, di valore non solo soggettivo. La mentalità “postmoderna” e puramente costruttivistica (come tale a volte arbitraria) era arrivata al capolinea; gli attacchi terroristici avevao fatto sì che la gente riconoscesse nuovamente il valore di esperienze interiori alla stregua di realtà oggettive. L’articolo di Rosenblatt ha causato negli Stati Uniti un dibattito molto ampio, durato anni, sulla relazione tra materialismo, secolarismo, laicismo e religione civile. Ha in ogni caso segnato la fine del “postmodernismo” anche e sopratutto dov’era stato più forte, cioè a New York e sulla East Coast. E questa, se vuole, è un’ironia della storia.
Resta da analizzare il quarto campo, quello della religione.
Nel mentre registriamo il ritorno della religione civile negli Stati Uniti, dobbiamo anche constatare la rinascita globale delle religioni confessionali: non solo dell’Islam radicale che ha ispirato gli attacchi, ma anche in parte del cristianesimo di destra (i nuovi fondamentalismi negli Usa), del confucianesimo e dell’induismo militante. L’11 settembre è anche la data che simboleggia questo ritorno della religione.
Naturalmente, quello che a noi interessa è che gli sviluppi nei quattro campi non solo coincidono, ma tendono a influenzarsi tra di loro.
In che senso l’interconnessione tra questi quattro campi tipologici di discorso pubblico (o di “logica sistemica”, come lei dice nei suoi studi) è stata cambiata dall’11 settembre, come accennato all’inizio del nostro colloquio?
Tutte le teorie sulla modernizzazione contemporanee partono dal presupposto che uno sviluppo positivo consiste in una sempre più grande autonomia di ognuna di queste quattro logiche dalle altre, cioè in una differenziazione strutturale dei quattro campi tipologici di sviluppo sociale.
L’11 settembre ha invece dimostrato il contrario, ha portato ad una sempre più grande ed intensa connessione tra i quattro campi di discorso pubblico; li ha mescolati in maniera così irrazionale, che la società americana, e sopratutto al livello del dibattito pubblico, è entrata in una fase di profonda regressione. Un regressione che ha riguardato la democrazia, i diritti individuali e collettivi. L’era di George Bush sarà ricordata non solo per il suo profondo illiberalismo e per l’intolleranza culturale, ma anche per la contrazione dei diritti dei cittadini americani e per il fatto che due guerre sono state motivate e portate avanti grazie ad una retorica che mescolava logiche religiose, affari e interessi politici. È stato un caso classico di regresso strutturale della democrazia americana causato proprio dalla commistione delle quattro dimensioni di cui abbiamo parlato. Tutto ciò ha avuto effetti devastanti sul processo di democratizzazione globale, ma ha anche prodotto fenomenologie irritanti come Guantanamo o Abu Ghraib, che ancora per decenni nuoceranno alla causa della libertà e delle società aperte dell’Occidente.
Se questo è l’effetto degli attentati a livello globale, qual è il cambiamento causato dagli attacchi all’interni degli Stati Uniti?
Come ha giustamente sottolineato Richard Sennett, mio collega della New York University, il movimento politico al momento più influente sulla scena interna americana, il “Tea Party”, è di fatto una diretta conseguenza degli eventi dell’11 settembre. È, come dice Sennett, la conseguenza dello shock di allora, una reazione quasi allergica di una parte della popolazione a tutto quello che viene da fuori, una difesa quasi cieca di quelli che, secondo la destra, sono i “valori base” degli Stati Uniti. Il “Tea Party” raccoglie sia la destra culturale che quella politica ed è attualmente la corrente fi gran lunga più importante all’interno del Partito Repubblicano, quella che gli impedisce di piegarsi a qualunque compromesso. La sua indubbia incidenza sulla politica interna degli Stati Uniti si è vista di recente in occasione della incide fortemente sulla politica interna degli Usa, per esempio nella battaglia sul debito pubblico: il Partito repubblicano è stato ad un passo dalla scissione, ma l’intero popolo americano si è diviso in modo profondo su questo tema.
Un unico evento può dunque cambiare il mondo e la vita interna di un grande Paese?
Non credo che sia così semplice. Non è stato un unico evento a produrre questi cambiamenti. L’11 settembre ne è stato piuttosto il simbolo – sicuramente quello più incisivo – e il sintomo. Non si deve fare l’errore di credere che con un solo atto terroristico si possa cambiare il mondo; sarebbe triste se fosse così. Quelli che abbiamo descritto nei quattro diversi campi sono sviluppi che erano già in corso e che l’11 settembre ha in un certo modo riassunto e integrato in un’unica immagine, e che sicuramente per certi aspetti ha anche accelerato. Ma non è stato l’11 settembre a creare tali processi. Questa data è, per così dire, espressione della sintomatologia storica, non l’origine del mondo nel quale viviamo oggi, o del mondo futuro che si creando sotto i nostri occhi.
Raramente si sono avute così tante teorie del complotto come nel caso dell’11 settembre. Qualcuno ha addirittura sostenuto l’ipotesi di una seconda “Pearl Harbour”, cioè di un evento più simbolico che militare o politico, che era nell’interesse degli Stati Uniti di allora, dove si sommavano il conservatorismo religioso di George Bush, interessi economici (l’industria del petrolio) e spinte espansionistiche provenienti dal mondo militare.
La inviterei a non credere mai a nessuna teoria cospiratoria, dal momento che sono tutte false, senza eccezione. Ma la cosa importante, il vero dato di fatto, è che l’11 settembre ha dato inizio a una nuovo, illimitato “unitarismo” nazionale. Cosa intendo con quest’espressione? Il fatto che il mescolarsi dei quattro discorsi, o ordini sistemici, di cui abbiamo parlato ha causato negli Stati Uniti, durante la presidenza di George W. Bush, un conformismo ideologico raramente osservato nella storia della democrazia occidentale. Fare politica confondendola con interessi economici e motivandola con discorsi religiosi – tutto ciò, come sappiamo da Jürgen Habermas e Jacques Derrida, è regressivo per una società aperta, ma è stato il pane quotidiano dell’amministrazione Bush. Se dal punto di vista di un progresso sistemico razionale differenziare i quattro tipi di discorsi, renderli autonomi l’uno dall’altro, è bene e significa progresso, mescolarli è regressivo, perché diminuisce la libertà e i diritti civili. Ed è esattamente questo che è successo negli Stati Uniti sotto il governo di Bush jr.: ua cambiamento fortificato dagli attentati e che oggi trova appunto espressione in fenomeni come il “Tea Party”.
In che modo gli Stati Uniti stanno percependo l’anniversario degli attacchi, sotto la nuova presidenza di Barack Obama, così diversa da quella di Bush jr.? Quali voci, quali punti di vista dominano il dibattito?
L’immaginario pubblico riguardo gli attentati non è ancora cambiato più di tanto. C’è una grande varietà di punti di vista e di tentativi d’interpretazione, molto diversi tra di loro. Uno dei principali temi di discussion è il seguente: gli attacchi dell’11 settembre sono stati solo un male o hanno prodotto, senza volerlo, un effetto a lungo termine per così dire “positivo” per l’America e per il mondo? Questo è uno dei noccioli dell’attuale discussione pubblica. E come si possono stabilizzare, se non addirittura incrementare, tali eventuali effetti positiv – come, per esempio, la rinascita dello spirito comunitario, della responsabilità pubblica e del senso civico? Le risposte sono molto diverse. Personalmente, non condivido l’opinione di Sennett quando sostiene che la paura causata dall’11 settembre ha fatto dell’America una nazione più egoista, nella quale i cittadini si sono chiusi nel proprio guscio invece di cooperare e di aiutarsi reciprocamente. Al contrario, sono più vicino a Rosenblatt, come ho spiegato prima, e alla visione della filosofa di Chicago Martha Nussbaum, la quale sostiene che l’11 settembre da una parte ha fatto sì che gli americani si rendessero conto meglio del fatto che c’è un mondo fuori dei loro confini, e dall’altra ha creato un dibattito più intenso che mai negli Usa su cosa possa essere e come possa essere radicata legalmente una giustizia globale, anche nel senso di un ordine globale più giusto e bilanciato. Infine, per far vedere la varietà degli argomenti e discussioni presenti negli Stati Uniti, ricordo il celebre psicologo Steven Pinker, il quale sostiene che l’11 settembre passerà alla storia non per l’evento reale in sé, che a suo giudizio era di secondo o terzo ordine, ma per la psicologia di massa venuta a galla: per aver chiarito che nel mondo moderno la percezione di un evento è più importante dell’evento stesso, e che percezione e sostanza di un evento possono essere diametralmente opposte. Una tale discrepanza si è notata anche nella crisi finanziaria del 2007-10, e secondo Pinker essa domina il mondo multipolare del 21mo secolo. Gli attentati dell’11 settembre hanno rilevato per la prima volta su scala globale un simile fattore.
Il direttore del Corriere della Sera ha scritto dieci anni fa: “Siamo tutti americani?”, con il punto interrogativo, con l’idea di stimolare il dibattito tra lettori e studiosi: ora possiamo cancellare il punto interrogativo?
Secondo me sì, “siamo tutti americani”, nel senso in cui lo sosteneva anche Alexis de Tocqueville, il primo intellettuale europeo ad analizzare gli Stati Uniti. Il mondo del futuro globalizzato, nel quale i popoli si mescoleranno o almeno vivranno in contatto sempre più stretto, sarà “americanizzato” in modo naturale: conterà non più la razza, la lingua, il colore, la provenienza, o la cultura di appartenenza, ma solo chi sei tu come individuo, cosa credi, cosa vuoi, il tuo carattere e le tue ambizioni, quello che sai fare. Gli individui saranno, spero, tutti uguali, e tutti differenti allo stesso tempo. Se questo accadrà, si può dire che questa è la visione sulla quale si basano gli Stati Uniti dal primo giorno della loro fondazione, naturalmente con tutte le contraddizioni e le tensioni implicite in una visione del genere.
Gli attentati dell’11 settembre, anche se può sembrare un paradosso, a lungo termine potrebbero indirettamente aver contribuito a creare una simile costellazione nascente. Perché hanno fatto vedere a tutto il mondo cosa succederà sempre più spesso se questa visione non sarà mondializzata pacificamente. Bisogna vincere il terrorismo non per aiutare gli Stati Uniti come nazione, ma per fare del mondo un posto più simile alla visione positiva che sta all’origine degli Stati Uniti d’America.
Come si può immaginare il futuro? Quali gli effetti tangibili dell’11 settembre nel prossimo futuro?
Abbiamo bisogno di più cooperazione internazionale tra Stati e culture diverse, ma anche e sopratutto tra gli Stati Uniti e l’Europa, ovvero tra i due centri della democratizzazione mondiale. E ciò deve avvenire in tutti e quattro i campi di azione: politica, economia, cultura, religione. L’effetto più importante dell’11 settembre secondo me consiste nel fatto di averci messo dinnanzi a questa necessità. Non è poco, anzi è tantissimo, se ne trarremo le giuste conseguenze.
Intervista a cura di Valter Alessandrelli