di Alessandro Campi
Pur avendo nei sondaggi percentuali di consensi che ormai sfiorano il 40% Matteo Salvini, stando almeno alle sue dichiarazioni ufficiali, non vuole sentir parlare di elezioni anticipate. Ne nasce una domanda persino ingenua: per quale ragione invece di passare all’incasso, come ragionevolmente gli chiedono anche molti dei suoi uomini, il leader della Lega preferisce tenere in vita un governicchio rissoso e poco concludente come è ormai quello giallo-verde? Piuttosto che il tira e molla quotidiano con Luigi Di Maio,
di Alessandro Campi

Pur avendo nei sondaggi percentuali di consensi che ormai sfiorano il 40% Matteo Salvini, stando almeno alle sue dichiarazioni ufficiali, non vuole sentir parlare di elezioni anticipate. Ne nasce una domanda persino ingenua: per quale ragione invece di passare all’incasso, come ragionevolmente gli chiedono anche molti dei suoi uomini, il leader della Lega preferisce tenere in vita un governicchio rissoso e poco concludente come è ormai quello giallo-verde? Piuttosto che il tira e molla quotidiano con Luigi Di Maio, snervante per chi ne è protagonista ma soprattutto noioso per chi vi assiste, non sarebbe preferibile rimettersi al giudizio degli elettori, vista anche la concreta possibilità di risultarne ampiamente premiato?

E invece niente. Salvini tituba, riflette, prende tempo, dilaziona. Sostiene, a dispetto dell’evidenza, che in fondo tutto va bene nel rapporto con gli alleati e nell’azione dell’esecutivo. Per quale ragione? Potrebbe trattarsi, come qualcuno sostiene, di mancanza di coraggio politico. Coloro che pubblicamente alzano la voce e fanno la faccia cattiva non è detto che siano poi davvero determinati, risoluti e pronti a tutto come vorrebbero far credere. Dietro il lupo feroce spesso si nasconde l’agnello . Salvini, bravo nel promettere sfracelli e nell’aizzare polemiche furibonde sui social, forse lo è meno quando si tratta di prendere decisioni dirimenti. Senza contare la differenza che sempre corre tra un capopopolo e uno statista, tra un leader di partito e un uomo di governo.

Potrebbe trattarsi anche di una prudenza all’insegna del realismo. I voti potenziali non sempre si traducono in voti reali. È già successo che la corsa alle urne sull’onda di sondaggi favorevoli si sia risolta, per chi l’ha voluta e determinata, in una cocente delusione se non in un mezzo disastro. Ci sono precedenti clamorosi, anche fuori d’Italia (da Jacques Chirac a Teresa May), di come si possa venire puniti anziché premiati dagli elettori, a dispetto delle intenzioni di voto, quando si porta al voto il proprio Paese anzitempo pensando di avere già la vittoria in tasca. Le elezioni sono sempre un’incognita: meglio dunque non correre rischi inutili.

Ma la spiegazione per la scelta attendista di Salvini potrebbe essere un’altra, più prosaica e strumentale, e tutta nel segno di una lucidità calcolatrice (anche se di corto respiro). Questa situazione politica a metà tra il caos e lo stallo, nella quale si muove da protagonista assoluto e con una straordinaria abilità, semplicemente gli conviene. Perché dunque modificare la situazione?

D’altro canto, di tornare con Berlusconi, come quest’ultimo gli chiede, Salvini semplicemente non ha alcuna voglia, anche se ciò gli consentirebbe di vincere a mani basse. Per lui il centrodestra come formula d’aggregazione è da considerarsi superata: non ci sono più possibili punti d’incontro tra il suo radicalismo ideologico (di marca sovranista) e il moderatismo di matrice popolare incarnato negli anni dal Cavaliere. Il suo interesse piuttosto è lo sfarinamento ulteriore dell’area centrista-liberale, in effetti sempre più debole e rissosa e sulla quale il Cavaliere, per banali ragioni d’età, prima o poi dovrà mollare la presa.

Ma anche nel rapporto con il M5S Salvini ha tutto l’interesse a che le cose continuino come è stato sinora, senza strappi irreparabili come sarebbero inevitabilmente elezioni anticipate. Da quando si sono alleati con la Lega i grillini non hanno fatto altro che perdere voti a valanga, spesso proprio a vantaggio del Carroccio (oltre a dividersi sempre di più al loro interno). Perché rompere con un partito che ti regala i suoi elettori senza colpo ferire e che al più si limita ad un po’ di ostruzionismo nell’azione di governo?

Coi numeri (potenziali) che ha Salvini potrebbe in effetti governare da solo, al massimo col sostegno della destra nazionalista guidata da Giorgia Meloni. Ma gli conviene caricarsi di ogni responsabilità, col rischio poi di doverne rispondere ai cittadini? Finché sta con Di Maio gli viene facile giocare la parte del politico solido, pragmatico e responsabile. I grillini sono quelli che dicono no a qualunque cosa. La Lega salviniana si presenta invece come un interlocutore più affidabile e concreto, specie sulle grandi partite economico-industriali che rischiano, se non risolte, di paralizzare il Paese (dall’Ilva all’Alitalia, dalla Tav alla Tap). Perché rinunciare ad una rendita di posizione tanto comoda?

Ma c’è dell’altro. Salvini oggi batte la grancassa quasi soltanto con l’immigrazione dall’Africa via mare, enfatizzata e drammatizzata oltre quel che i numeri e il buon senso dimostrano. Si erge a difensore dei confini nazionali, accusa le Ong di connivenza con i trafficanti e sostiene che con lui al Viminale non ci

saranno sbarchi nei porti italiani (non è vero, ma molti gli credono). Un atteggiamento intransigente che sinora gli ha portato parecchi consensi. Ma se un giorno dovesse trovarsi alla guida del governo dovrebbe inevitabilmente occuparsi in prima persona anche di altri temi. Ad esempio, per simmetria rispetto al tema dell’immigrazione, delle emigrazioni dall’Italia. Ci preoccupiamo tanto per gli stranieri che sbarcano sul nostro suolo, ma forse dovremmo preoccuparci anche per quegli italiani (in larga parte giovani e laureati) che se ne vanno dall’Italia perché nel frattempo è diventata una realtà invivibile, che non offre prospettive e certezze ai suoi stessi cittadini, figuriamoci a chi viene da fuori.

Non parliamo poi delle risposte che la Lega da sola al potere dovrebbe dare, per fare un solo esempio, all’eterna, mai risolta e nuovamente drammatica questione meridionale. Nell’attuale divisione del lavoro tra alleati di governo il Sud è un’incombenza del M5S, che in questa parte d’Italia ha raccolto gran parte dei suoi consensi. Quale sarebbe la politica di Salvini per il Mezzogiorno? E quanto sarebbe gradita al suo storico elettorato del Nord? Il progetto di un partito secessionista trasformatosi in una forza nazionale probabilmente si risolverebbe in un bluff propagandistico.

Ma scelte dirimenti, con la Lega padrona dell’Italia, dovrebbero essere fatte anche nei confronti dell’Europa (e più in generale sulla politica estera, oggi ancora ambiguamente in bilico tra atlantismo e putinismo). Si andrebbe alla rottura con la Ue, secondo i bellicosi annunci che ogni tanto si sentono, o si cercherebbe un inevitabile compromesso? Il rivoluzionario di destra Salvini probabilmente si comporterebbe come ha fatto in Grecia il rivoluzionario di sinistra Tsipras: farebbe cioè di necessità virtù, con buona pace delle odierne invettive contro i burocrati di Bruxelles.

Uomo di propaganda, a suo agio con annunci e proclami di lotta, Salvini sembra insomma temere le responsabilità del potere, che preferisce gestire in condominio con un alleato di comodo quale il M5S, sul quale scaricare tutta la colpa di ciò che non funziona. Comodo per lui, meno per l’Italia. Senza contare che così facendo potrà ancora conquistare simpatie sul breve periodo, ma rischia in prospettiva di perdere l’occasione politica della sua vita. L’occasione cioè di mettersi direttamente alla prova, prima che la curva del consenso – oggi probabilmente al suo picco – inizi fatalmente a declinare.

 

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