di Alessandro Campi
“La crisi appena cominciata / è già finita.” Ragionando (e cantando) alla Sergio Endrigo, il governo dovrebbe restare tranquillamente in carica, altro che rottura o elezioni anticipate. E chi si appiglia, per sostenere il contrario, agli insulti e alle parole grosse che quotidianamente volano tra Salvini e Di Maio non ha ancora capito come funziona la comunicazione politica nell’epoca dei social (e, aggiungiamo, come funzionano i rapporti anche personali tra i due dioscuri).
Per dirla in soldoni, relativamente soprattutto al primo punto: più oggi si sente urlare o inveire, meno ci si deve preoccupare. I toni esasperati e ultimativi, specie se utilizzati nella discussione (si fa per dire) politica, ormai non preludono a nulla di irreparabile. Sono quasi sempre finti, strumentali, insinceri e reversibili. Sono il contentino rabbioso che si deve ai propri tifosi. Sono una necessità espressiva imposta dai nuovi media digitali: se ragioni e articoli un pensiero appena complicato nessuno ti fila, se alzi i toni, offendi e provochi l’attenzione è tutta per te. Ma solo per poche ore. Poi tutto viene dimenticato e ti tocca inventarti qualcosa di nuovo e di ancora più eclatante, in un gioco al rialzo che sembra non finire mai.
Salvini e Di Maio, per ragioni generazionali e per formazione (essenzialmente televisivo-digitale), si muovono da maestri in quest’universo fatto di pensieri che spesso non si pensano (ma che servono alla propaganda) e di parole che non durano nemmeno il tempo necessario a pronunciarle (tanto da poterle smentire senza il rischio di apparire incoerenti agli occhi dei propri simpatizzanti-elettori). Ne conoscono le regole e le applicano in modo pedissequo, con il bel risultato tra l’altro di tenere i riflettori sempre accesi sulle rispettive persone. Cosa c’è di più comodo che governare insieme e insieme farsi anche l’opposizione? Ogni volta si arriva ad un passo dalla rottura per poi fare la pace, con l’opposizione (quella vera) sempre più frustrata e impotente. È un copione che si ripete ormai da mesi, compreso ieri.
Ciò non vuole dire naturalmente che il loro contrasto sia solo un gioco delle parti mediatico. Ci sono anche ragioni politiche che li oppongono e differenze ideologico-programmatiche che erano evidenti già quando l’attuale esecutivo è nato. Ma da qui a immaginarne la fine imminente solo per via di qualche dichiarazione alla stampa sopra le righe ce ne corre. Se Salvini, parlando di Di Maio, dice che la fiducia personale reciproca è ormai finita (salvo poi smentire, appunto) questo non vuol dire che desideri segretamente le urne. L’occasione per chiudere l’avventura del governo giallo-verde il leader leghista l’ha avuta nelle settimane scorse, ma ha preferito non coglierla: le elezioni sono sempre un’incognita (a dispetto dei sondaggi positivi), di governare in prima persona probabilmente non ha voglia (troppe responsabilità) e l’attuale situazione in fondo gli fa comodo.
Se oggi, nel marasma provocato dalle polemiche sui rapporti ambigui intrattenuti dalla Lega con la Russia putinista, Salvini agita nuovamente lo spettro del voto anticipato è per ragioni meramente tattico-strumentali. La prima è che i grillini lo stanno martellando pubblicamente sperando di riprendersi un po’ dei consensi che in questi mesi proprio Salvini ha strappato loro. Il leader leghista è in difficoltà sul piano personale e per indurre gli alleati a darsi una calmata quale minaccia è più efficace di un “tutti a casa”? A meno che qualcuno non pensi seriamente che rompendo con la Lega il M5S possa giocarsi la carta di riserva di un governo col Pd per il quale in Senato nemmeno esistono i numeri. Di Maio per primo non crede ad una simile possibilità, anche perché sa benissimo che la fine di questo esecutivo equivarrebbe alla sua fine politica.
La seconda ragione è che ci sono alcuni temi (il regionalismo differenziato, la riforma della giustizia, la flat tax) che Salvini intende mettere al centro dell’azione di governo alle sue condizioni, dal momento che forte del risultato ottenuto alle europee ormai si considera l’azionista di maggioranza dell’esecutivo. Il M5S cerca di resistere (come si è visto ieri con il braccio di ferro sull’autonomia), ma la Lega in questo momento ha obiettivamente i numeri dalla sua parte. Il che porta a dire che Salvini più che alla crisi di governo forse pensa – più prosaicamente – ad un ricambio all’interno del medesimo. Non è un gran segreto che i ministri Toninelli e Trenta siano da un pezzo nel suo mirino. Lo ha ripetuto sempre ieri: salvo poi smentire, appunto.
L’ulteriore ragione di attrito è che certamente Salvini comincia a soffrire un po’ troppo l’attivismo in Europa del premier Conte, che dal suo punto di vista non è mai stato realmente equidistante tra i due contraenti il contratto di governo. Presto ci sarà da indicare il rappresentante dell’Italia nella nuova Commissione europea: saltato il nome di Giorgetti dovrà comunque essere un uomo vicino alla Lega o indicato espressamente da quest’ultima. Una prerogativa politica alla quale Salvini non intende rinunciare solo perché – come si sostiene dalle parti del M5S – la Lega si sarebbe messa fuori dai giochi europei non avendo sostenuto l’elezione del nuovo Presidente del Parlamento europeo, come invece i grillini hanno fatto. La futura Commissione richiederà un nuovo voto a maggioranza (preferibilmente più ampia di quella striminzita che ha eletto Ursula von der Leyen) ed è in quella sede che Salvini, se le sue indicazioni sul Commissario saranno soddisfatte, potrà rimettersi in gioco. Ma in prima persona, senza l’ombra di Conte o senza che quest’ultimo si prenda troppi meriti.
Messa così, sembrano scaramucce o piccole beghe, ma la politica è fatta anche di questo: di riposizionamenti tattici (e lotte per le poltrone) spacciati per battaglie di principio, divisioni sui programmi e incompatibilità personali. Tra Lega e M5S nulla dunque che non si possa ricomporre, tra un dispetto e l’altro. Per la crisi, quella vera, bisognerà aspettare ancora.
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