di Alessandro Campi
C’era una volta il M5S: contestatore e barricadiero, partito di lotta e di denuncia capace di raccogliere il malessere di milioni d’italiani. Troppo radicale, nel giudizio di molti, per poter governare: senza contare l’inesperienza dei suoi uomini e donne. C’era solo da sperare, se mai fosse arrivato al potere, in un cambio d’atteggiamento nel segno del pragmatismo e del buon senso. Anche perché, si sa, le cose si modificano più coi fatti che con le parole incendiarie.
La cosa divertente è che ai primi cenni di revisionismo e normalizzazione, per quanto goffi e dettati più dalla necessità che dalla convinzione, ad esprimere nostalgia per il grillismo “duro e puro” sono immediatamente stati gli stessi che sino all’altro giorno ne denunciavamo l’estremismo inconcludente. Con Beppe Grillo, sino a ieri trattato come l’ispiratore di una forza eversiva, che d’improvviso è divenuto un capo politico sul punto di essere rinnegato dai suoi stessi uomini e intorno al quale stringersi con affetto.
Alcuni segnali recenti hanno fatto immaginare un lento e salutare cambiamento (in primis proprio per il M5S). Prendiamo la favoletta, alla quale i grillini per primi non credono più, dei due mandati come antidoto alla politica intesa come rendita personale – come se il buon funzionamento della democrazia possa davvero dipendere dalla rotazione permanente degli incarichi e dal volontarismo applicato alla gestione della cosa pubblica.
Ma pensiamo anche al cambio di passo dall’antieuropeismo ad un europeismo tattico e all’incrinatura del mito forcaiolo-giacobino che i grillini hanno cavalcato a lungo nelle piazze costruendovi gran parte della loro fortuna – quel desiderare “tutti in galera” nato per appagare l’istinto vendicativo delle masse e divenuto, oltre che un pericoloso boomerang per chiunque governi, anche la negazione di qualunque elementare senso della giustizia.
In realtà, il grillismo come ideologia della protesta e del rifiuto permanenti (da cui nascono in larga parte la paralisi romana e le inconcludenze di un ministro alla Toninelli) è ancora assai vivo. I partiti – come gli esseri viventi – hanno un loro codice genetico, vincolante per definizione. Se la Lega, nata nordista e secessionista, fatica a rendersi credibile come partito di tutti gli italiani, figuriamoci quanto difficile sia per i grillini, nati come liquidatori nel nome del popolo d’un sistema istituzionale giudicato marcio dalle fondamenta, trasformarsi in politici costruttivi, di quelli che valutano il da farsi non sulla base dei loro furori ideologici ma badando a ciò che realisticamente conviene ai cittadini e al Paese (e un po’ anche a sé stessi).
La cultura del NO a tutto, preventivo e pregiudiziale, non è facile da sradicare per una forza politica convinta che la corruzione sia intrinseca all’agire politico, ragion per cui l’unica garanzia di virtù sembrerebbe essere l’immobilismo spacciato per rispetto formalistico delle regole.
La paura di perdere l’anima e la purezza delle origini per i vertici grillini è ancora più forte del rischio di continuare a perdere elettori a causa della loro mancanza di obiettivi concreti e realistici. C’è ancora radicata la convinzione che siano stati votati in massa per chiudere l’Ilva, per fermare l’oleodotto pugliese, per opporsi ai grandi eventi (a partire dalle Olimpiadi) e per bloccare definitivamente la Tav. Ma è una lettura che confonde la parte (il consenso di alcune minoranze organizzate e ideologizzate in senso radical-ambientalista) con il tutto (quei milioni di italiani, provenienti dall’intero spettro politico, che hanno aderito al grillismo sull’onda dell’indignazione e del risentimento sociali, ispirati dal desiderio irrazionale e assai generico di mandare a casa un’intera classe dirigente).
Il grillismo si è affermato non sulla base di un programma organico, ma di un cattivo umore collettivo alimentato ad arte (che al Sud si è sommato alla speranza, giustificata dalla crisi economica e dalla disoccupazione persistente, di un ritorno all’assistenzialismo di Stato). Arrivato rocambolescamente al potere esso si è trovato fatalmente dinnanzi all’alternativa se utilizzarlo in vista di qualche obiettivo tangibile, a costo di rimettere in discussione alcune delle sue visioni apodittiche, o se deplorarlo come un male in sé. Dopo oltre un anno al governo, il dilemma non è stato ancora sciolto.
Ragione di più per seguire con curiosità la linea pragmatico-governista perseguita da Giuseppe Conte: che da capo del governo per caso sempre più viene presentato come leader potenziale del M5S e come l’uomo-chiave della politica italiana a venire.
In realtà, le crescenti attenzioni nei suoi confronti appaiono da un lato sospette e dall’altro largamente esagerate. C’è chi lo blandisce nella speranza che diventi, magari d’intesa col Quirinale, il grimaldello capace di scardinare l’attuale maggioranza di governo per guidarne una alternativa che magari includa il Pd. C’è chi invece gli attribuisce una forza politica e un seguito elettorale che semplicemente (ancora) non ha e che non sarà facile costruire a tavolino: l’esperienza (leggi Monti) evidentemente non ha insegnato nulla a certi commentatori.
In questo momento Conte sta giocando una partita certamente complicata e abile, anche se la sua forza attuale nasce in gran parte dallo stato di difficoltà in cui si trovano, per diverse ragioni, i suoi due vice. Per cominciare, con una credibilità che gli deriva anche dal suo stile misurato, Conte sembra interpretare una variante del populismo grillino (definiamolo per comodità “radicalismo di centro” per distinguerlo dal “movimentismo di sinistra” che fa capo a Roberto Fico e ad Alessandro Di Battista) che pure esiste e che Di Maio, rimasto sinora troppo incerto tra doppiopetto e pulsioni antisistema, non è riuscito a raggrumare come era nelle sue intenzioni. Conte prova a costruire un grillismo pragmatico e fattivo, mentre Di Maio – come si è visto ieri con le sue dichiarazioni di fuoco contro la Tav – sembra essere tornato a preferire le barricate. Forse è un gioco delle parti concordato a tavolino. Ma è anche la prova, come accennato, che il grillismo ufficiale continua a considerare tradimento ogni deviazione dalla propaganda.
C’è poi la partita di contenimento con Salvini. Nella corsa mediatica al rialzo con quest’ultimo Di Maio ha dimostrato di essere sempre in affanno. Conte col leader leghista ha invece deciso di giocare una partita differente, tutta entro il perimetro istituzionale. Nessuna competizione a colpi di tweet e video-selfie, ma la minaccia velata – avanzata esplicitamente ieri nel suo intervento al Senato – che in caso di crisi di governo (con l’idea di andare ad elezioni anticipate, come forse Salvini a questo punto vorrebbe) si andrebbe dinnanzi al Parlamento. Con la possibilità potenziale che in quella sede si materializzi una diversa maggioranza politica a sostegno di un governo del quale Conte – va da sé – sarebbe ancora la guida.
Una sfida che però nasconde anche il desiderio di provare a far vivere questo governo nel segno degli inevitabili compromessi tra alleati. L’apertura sulla Tav è l’esempio più evidente del metodo che Conte sta seguendo: lo stesso che lo porterà probabilmente a tentare una ragionevole intesa con la Lega anche sugli altri temi cari a quest’ultima: dal regionalismo differenziato alla giustizia, passando per le nomine europee. L’importante, per lui, è restare a cavallo.
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