di Alessandro Campi
Non potendo aprirlo come una scatoletta di tonno (forse perché non si è trovato un apriscatole gigante), non potendo nemmeno ridurlo ad un bivacco di manipoli o sprangarlo (forse perché certe evocazioni mussoliniane non è detto che facciano sempre guadagnare voti), alla fine si è trovato un modo assai semplice e indolore per trasformare il nostro Parlamento in un’aula effettivamente “sorda e grigia”: si è smesso di farlo lavorare.
L’inchiesta di ieri del “Messaggero” lo ha mostrato chiaramente: in questa legislatura ci sono state meno sedute e si sono approvate meno leggi rispetto al passato, la gran parte delle quali conversioni di decreti-legge del governo. Non è naturalmente ozio personale, siamo probabilmente alle prese con una tendenza storica: la preminenza crescente del potere esecutivo (sempre più concentrato nelle mani di ristrette oligarchie) su quello legislativo, cui contribuisce anche la crisi dei partiti di massa. L’Italia, come spesso nella sua storia, fa da laboratorio per la politica mondiale a venire.
Se la funzione sviluppa l’organo, l’inattività lo fa deperire: quello che auspicano i fautori della democrazia diretta (i grillini) e i sostenitori della democrazia del capo-capitano (i leghisti). Che comandino tutti o che comandi uno solo, in entrambi i casi il Parlamento appare sempre più un residuo ottocentesco. Per delegittimare il quale basta alimentare il sospetto – centrale nella odierna retorica anti-politica o post-democratica – che si spendano troppi soldi pubblici per un’istituzione tendenzialmente inutile. Per il momento si chiede di ridurre drasticamente il numero dei parlamentari, ma presto si potrebbe arrivare a chiedere non la soppressione delle assemblee elettivo-rappresentative (sarebbe in effetti un po’ troppo), ma magari la loro trasformazione in un organo meramente consultivo o d’indirizzo, la cui unica funzione – peraltro poco più che nominale visto il modo con cui si tende oggi a selezionare la classe parlamentare, secondo criteri di cieca lealtà ai vertici dei partiti – sarebbe al massimo quella di votare la fiducia al governo.
Si dovrebbe argomentare a questo punto che la democrazia liberale, detta anche dei moderni, è per definizione rappresentativa. E che la rappresentanza, nel suo significato politico, ha bisogno di uno spazio pubblico, al tempo stesso fisico e simbolico, all’interno del quale esprimersi in una dimensione collettiva. Tale è appunto il Parlamento: il luogo nel quale le differenze partitico-ideologiche e i divergenti interessi economico-sociali e territoriali si ricompongono in una visione unitario e solidale. Si dovrebbe altresì ricordare quanto sia importante, per la vita di una democrazia, disporre di un’istituzione in grado, attraverso la dialettica maggioranza-opposizione, di controllare chi esercita (momentaneamente) il potere esecutivo. Ma questa genere di precisazioni, come ormai si è capito, non interessano più nessuno. Siamo nell’epoca della politica-spettacolo, della comunicazione digitale e del potere al popolo: le decisioni vere si prendono in spiaggia, ballando e cantando insieme ai cittadini al ritmo del dj, tra un selfie e l’altro.
Moralismo intriso di nostalgia per una stagione della politica finita per sempre? Può darsi, ma bisognerebbe prima provare – ed è un onere che tocca ai populisti – che stare dalla parte dei cittadini comuni equivalga ad assecondarli in ogni loro pensiero (compresi quelli peggiori o inconfessabili) o comportamento (compresi i più sguaiati e volgari). È vera democrazia o un inganno propagandistico peraltro alla lunga controproducente? La simpatia non genera automaticamente rispetto. Un conto è la popolarità, altra cosa è la credibilità. La storia insegna che i politici osannati dal popolo, da quello stesso popolo sono stato gettati nella polvere e (non sempre metaforicamente) calpestati.
Ma il pessimismo storico non si addice all’estate. Meglio limitarsi alla cronaca politica, d’ispirazione inevitabilmente balneare visto il caldo, per cercare di capire se dietro le dichiarazioni estemporanee e le polemiche di queste ore (particolarmente virulenta quella tra Salvini e Di Battista) s’intravvede qualcosa del futuro che ci aspetta. C’è sempre incombente sulla carta la minaccia di elezioni anticipate, ma abbiamo già spiegato, su queste colonne qualche settimana fa, perché Salvini pur col 40% dei consensi potenziali non le vuole: ha paura di dover governare da solo sul serio, senza più l’alibi del M5S con cui prendersela. E poi dove lo trova un alleato che gli regala i suoi voti senza chiedere nulla in cambio?
Piuttosto è da seguire con interesse l’approdo oggi al Senato, per la sua definitiva conversione, del decreto sicurezza bis, che per la Lega salviniana ha lo stesso valore simbolico che il no alla Tav o il reddito di cittadinanza ha per i grillini. Questi ultimi, con i numeri risicati che la maggioranza ha a Palazzo Madama, potrebbero essere tentati dal fare uno sgambetto, visto anche il modo sbrigativo con cui Salvini ha liquidato da ultimo anche la riforma della giustizia proposta dal Guardasigilli Bonafede. Peraltro nel M5S esistono dei malumori reali (non solo strumentali) verso questo decreto. Da qui l’interesse di un’eventuale soccorso parlamentare che potrebbe venire da Forza Italia e da Fratelli d’Italia, che in caso di defezioni grilline potrebbero diventare decisivi per far passare la fiducia sul provvedimento.
Potrebbe così riprendere corpo il tormentone politico che ha amareggiato gli ultimi mesi di Berlusconi e stimolato la fantasia di molti commentatori: Salvini è davvero convinto, sondaggi alla mano, di poter fare da solo o prima o poi, quando inevitabilmente finirà quest’anomala esperienza di governo e si andrà al voto, il suo destino è di rimettere in piedi la storica alleanza di centrodestra, essendone questa volta beninteso il dominus assoluto?
La prospettiva centrista-terzaforzista di Berlusconi, visti i tormenti nel suo partito e i numeri impietosi dei sondaggi, pare davvero poco credibile. Così come l’idea di sommare le proprie forze con quelle degli eventuali scissionisti renziani del Pd per dare vita ad un nuovo polo anti-populista. Il richiamo della foresta così come la voglia di tornare al potere sono, in parte significativa del mondo berlusconiano, più forti del desiderio di provare alchimie destinate con ogni probabilità al fallimento elettorale. Il voto sul decreto sicurezza bis potrebbe dunque essere un passaggio importante per avviare un percorso nuovamente comune che a questo punto forse nemmeno a Salvini dispiace. Sin dall’inizio ha puntato sulla scomposizione elettorale-organizzativa di Forza Italia e sull’egemonia ideologica della sua piattaforma nazional-radicale, tutta centrata sui temi della sicurezza e della lotta all’immigrazione, rispetto al popolarismo-liberale del Cavaliere. Ha stravinto su entrambi i fronti e dunque può anche permettersi, a questo punto, di far rinascere il vecchio centrodestra. Anche se a questa storica formula bisognerà eventualmente cambiare nome: tanta destra (radicale), pochissimo centro.
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