di Alessandro Campi
Largamente prevista da osservatori ed esponenti politici d’ogni colore, caldamente desiderata dalla maggioranza che sostiene il governo Conte, è giunta nel tardo pomeriggio dello scorso 16 gennaio la bocciatura della Corte Costituzionale. Il referendum primaverile sulla legge elettorale richiesto dalla Lega (tramite le otto Regioni guidate dal centrodestra) non ci sarà.
L’obiettivo esplicito del quesito inoltrato alla Consulta era l’abolizione della quota proporzionale del Rosatellum bis al momento vigente: ne sEsciarebbe derivato, italiani permettendo, un sistema maggioritario a turno unico sul modello di quello anglosassone. Quello implicito era doppio: da un lato, azzoppare la legislatura e andare al voto anticipato; dall’altro, trasformare il voto referendario (da incrociare con quello sul taglio dei parlamentari) in un plebiscito pro o contro Salvini.
A quest’ultimo – che come soluzione politica in extremis, annusata l’aria sfavorevole, aveva anche proposto il ritorno puro e semplice al Mattarellum, forse con l’idea di mettere in difficoltà il Capo dello Stato che ne è stato l’ideatore nel 1993 – resta a questo punto una carta politica che certamente sfrutterà al meglio: proporsi agli italiani come il difensore del loro diritto a scegliersi i propri rappresentanti contro quei politicanti che, con l’annunciato ritorno al proporzionale, confermano di essere interessati solo alle loro poltrone. Se il populismo vive esattamente di queste efficaci semplificazioni la colpa è anche di chi contribuisce a renderle credibili.
Sul piano tecnico-legislativo, a questo punto la responsabilità in materia elettorale passa nelle mani del Parlamento, segnatamente in quelle della coalizione giallo-rossa che ha da poco provveduto ad incardinare una proposta di legge elettorale che si muove appunto nella direzione d’un ritorno a un proporzionale pressoché integrale (appena mitigato da una soglia di sbarramento che si vorrebbe al 5%).
In sé non si tratta di uno scandalo, visto quanto è radicato il proporzionalismo nella storia repubblicana: una mentalità prima che una tecnica di voto, al punto da poterlo considerare la traduzione istituzionale, attraverso il sistema dei partiti, del profondo pluralismo di culture politiche e di interessi sociali caratteristico dell’Italia per ragioni storiche secolari. Proporzionalistici (ma con correttivi finalizzati a ridurre la frammentazione partitica, a tutelare la libertà di scelta degli elettori e a garantire coalizioni stabili) sono oltretutto la gran parte dei sistemi di voto attualmente utilizzati in Europa: difficile denunciare come un patologico ritorno al passato quello che per molti è la normalità del presente.
Il problema semmai è nelle modalità e nelle ragioni con cui si sta scegliendo, vieppiù dopo questa decisione della Consulta, di liquidare la lunga (e in effetti non felicissima) stagione dell’Italia maggioritaria e tendenzialmente bipolare. Con l’aggravante tragico-ironica che a sperticarsi adesso per il proporzionale sono gli stessi personaggi e attori che della “vocazione maggioritaria” dei rispettivi partiti, delle coalizioni da formare necessariamente prima del voto per ragioni d’omogeneità programmatica, della semplificazione bipolare come alternativa virtuosa al frazionismo multipartitico avevano fatto quasi una forma di pedagogia civica.
Si dice, per giustificare questa giravolta, che i tempi cambiano e che la politica, se intelligente e razionale, deve assecondarli con flessibilità. Ma non sembra questo il caso dell’Italia. Nella rinnovata opzione proporzionalistica non s’intravvede infatti una capacità di calcolo strategico e di pianificazione sui tempi lunghi – che da tempo manca alla nostra classe politica, altrimenti non avremmo avuto sei diversi sistemi elettorali in trent’anni, mentre s’annuncia il settimo – ma una più modesta tendenza a utilizzare le tecniche di voto secondo le convenienze del momento e per finalità improprie: come l’illusione che grazie ad esse possano nascere quei progetti politici di lungo respiro che la politica per suo conto non riesce a produrre o a rendere convincenti.
In questo momento il voto proporzionale conviene a tutte le forze al governo. Innanzitutto perché si ritiene sia il freno più efficace alla frenesia da “pieni poteri” di Salvini. Poi per ragioni di singole botteghe. Serve ai grillini per arrestare la loro corsa autodistruttiva: li renderebbe liberi di non stringere accordi di coalizione prima del voto, sui quali non esiste una posizione comune al loro interno, di contarsi in autonomia e di ricompattarsi. Va bene al Pd come esca o pegno nei confronti di un M5S che si vorrebbe trasformare (magari parecchio indebolito) in un alleato organico. E non dispiace ai riformisti renziani e ai socialdemocratici di Leu. Purché non sia troppa impegnativa la soglia d’accesso in Parlamento, questi due partiti col proporzionale avrebbero garantita una significativa rappresentanza parlamentare.
In realtà, i fautori del proporzionale – il cui iter di approvazione sarà certamente modulato secondo i ritmi vitali che si vogliono assegnare all’attuale legislatura (da questo punto di vista molto conterà l’esito del voto in Emilia Romagna) – perseguono anche una mezza idea strategica: mettere in gioco nuovo energie e creare nuovi equilibri parlamentari. In particolare, si spera nella creazione di un centro politico-elettorale più omogeneo dell’attuale centro parlamentare, composto da troppi e differenti spezzoni. C’è chi immagina un’aggregazione che, sfruttando il voto il meccanismo proporzionale, potrebbe formarsi tra l’Italia Viva renziana, la Forza Italia berlusconiana (ovvero quella sua parte non disposta ad alleanze con Salvini) e altri segmenti sparsi di sensibilità liberal-moderata (da Calenda agli europeisti d’estrazione radicale). Ma in questo ragionamento s’annida un errore di metodo potenzialmente letale: una legge elettorale non può da sola far nascere uno schieramento politicamente solido e ben radicato nella società. Può fotografarlo nella sua consistenza parlamentare, non nella sua forza reale, che dipende da altri fattori: leadership, programma, rete di relazioni sociali ed economiche, visione progettuale, organizzazione interna ecc.
Le leggi elettorali, anche quella che ci si appresta a fare, hanno poi un altro problema: prima di utilizzarle nessuno sa quali esiti effettivi producono. Soprattutto in tempi di elettorati inquieti e instabili hai voglia a fare sondaggi, calcoli e previsioni. La razionalità non s’addice alla post-democrazia. Il che significa che varare a colpi di maggioranza una legge proporzionale per non far vincere i sovranisti, come alcuni candidamente ammettono, non può impedire a questi ultimi di vincere lo stesso, se gli elettori a maggioranza lo vorranno.
Parliamo poi di una legge che, attraverso i listini bloccati, sembra mettere troppo potere nelle mani di partiti in crisi crescente di legittimità. In tempi di anti-politica galoppante, non concedere nulla al sovrano-elettore, non favorire un qualche rapporto diretto e fiduciario tra elettore ed eletto attraverso il meccanismo dei collegi o l’introduzione delle preferenze, è come gettare benzina sul fuoco del risentimento populista. Oltre ad abbassare oltre ogni limite accettabile la qualità di una classe parlamentare che già non è eccelsa ed è troppo spesso composta da esecutori fedeli delle decisioni di pochi, ovvero da avventurieri disposti ad ogni cambio di casacca.
Servendo poi le leggi elettorali soprattutto come strumento per scegliere i parlamentari, non per eleggere i governi o per garantire dall’esterno la stabilità e capacità decisionale dei medesimi (magari attraverso la forzatura dei premi di maggioranza), se ne ricava che queste ultime sono qualità assicurate, più da come si vota, da come è strutturato il sistema dei partiti e da come questi ultimi funzionano e sono organizzati. Partiti liquidi, effimeri o eccessivamente personalisti producono di necessità parlamenti instabili, coalizioni litigiose e governi a loro volta deboli. Che è poi da un ventennio il vero e drammatico problema dell’Italia.
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