di Alessandro Campi
Rinascimento, Risorgimento: la luce della ragione dopo l’oscurantismo dogmatico, l’indipendenza nazionale dopo l’oppressione straniera.
Resistenza, Ripartenza: la libertà collettiva dopo la tirannia ideologica, il ritorno del benessere dopo le rovine e la crisi.
Sono non solo assonanze linguistiche e storico-ideali, ma speranze fondate su un pensiero semplice: da qualunque abisso, purché lo si voglia tenacemente, si può sempre risorgere, individualmente e collettivamente, come più volte ha fatto l’Italia nella sua storia antica e recente.
In questo 25 aprile 2020, tragicamente segnato dalla pandemia, dai lutti e dalla segregazione forzata di milioni di italiani, i paragoni storici, soprattutto col secondo dopoguerra, sono venuti facili, tanto è il bisogno, in questo momento, di infonderci coraggio.
L’ha fatto in particolare il Presidente Mattarella, che nel celebrare la Liberazione ha ricordato che ci sono anche oggi, come dopo la caduta del fascismo e la guerra perduta, depositi d’energia collettiva utili alla rinascita del Paese a dispetto delle difficoltà che stiamo vivendo e che forse ancor più vivremo nei prossimi mesi.
Un messaggio speranzoso, vibrante nella sua semplicità, ma che purtroppo non basta da solo a creare quel clima d’unità necessario perché l’Italia si risollevi. Tra presente e passato esistono infatti differenze vistose, delle quali, per evitare scadimenti retorici e attese vane, bisogna essere consapevoli.
Anche nel dopoguerra, è vero, gli italiani tornati alla democrazia erano divisi in fronti irriducibilmente nemici. Ma se hanno fatto insieme quel che hanno fatto – un grande sviluppo nella libertà per tutti – è perché quelle contrapposizioni avevano un fondo autentico e vissuto, rispondevano a visioni di società tra loro alternative ma che nascevano dalla storia e da una idea positiva del futuro. Mentre le divisioni odierne, anche laddove riprendono quelle antiche, hanno un che di posticcio e insincero, di puramente propagandistico e strumentale. Paiono gli scimmiottamenti ideologici o le riproposizioni umorali di un universo storico finito, laddove il mondo odierno – come si è visto – ha ben altre urgenze con cui confrontarsi. Dividersi va bene, visto che i conflitti possono anche alimentare il dinamismo sociale, ma perché farlo sul fantasma del Duce o su una festività che dovrebbe essere di tutti?
È poi evidente l’abisso che corre tra la classe politica odierna, largamente avventizia e improvvisata, e quella d’allora. Non è solo un problema di preparazione individuale, ma di forma mentis collettiva. I gruppi dirigenti dell’epoca, pur nelle divisioni, sentivano l’Italia come retroterra comune e condiviso. La scuola li aveva formati ad un certo ethos risorgimentale autenticamente unitario. Per essi la continuità storico-culturale della nazione italiana era un valore da preservare oltre ogni possibile divisione (politica, territoriale) o trauma (come quello appena superato della dittatura e della guerra).
Laddove oggi, tra chi governa e comanda, sembrano prevalere i localismi, gli egoismi comunitari e le affiliazioni parentali o affaristiche, un europeismo spesso dogmatico e acritico, un nazionalismo anacronistico che oltretutto spesso sconfina nell’ammirazione per qualche autocrate straniero, ovvero le vaghezze di un cosmopolitismo magari ispirato da buone intenzioni e grandi ideali, ma che spesso è solo un modo diverso per considerare l’Italia stato-nazionale una realtà superata.
C’era poi, quando l’Italia rinacque dalle ceneri del conflitto, un’idea della politica che, comunque declinata ideologicamente, era considera il motore della società, la sua guida necessaria, come tale riconosciuta anche dai cittadini. In certe sue espressioni corrotta e affaristica anche all’epoca, per carità, ma capace comunque di decidere e scegliere in un’ottica d’interesse generale, capace altresì di visioni di lungo periodo e di azzardi progettuali.
Oggi, come si vede anche in queste settimane, la politica invece balbetta, si nasconde dietro altre competenze, non elabora e non propone, sfugge le proprie responsabilità. Non affronta la realtà, ma pattina su di essa, autodelegittimandosi proprio nel momento in cui più ce ne sarebbe bisogno. Al massimo riesce ad essere pedagogica e paternalistica, involontariamente autoritaria, allorché tratta ancora gli italiani come quel popolo-bambino che dopo la guerra bisognò educare alla democrazia. Solo che da allora sono passati settantacinque anni e dunque impressiona un governo che in quest’emergenza, invece di dettare ai cittadini norme di condotta chiare ed essenziali, vorrebbe ordinare loro quando fare il bagno, come passeggiare per strada, in quanti stare a tavola o quando incontrare amici e parenti.
Come nascondersi poi, visto che per rinascere occorrono vitalità ed energie fresche, che per l’Italia di oggi c’è un problema d’ordine banalmente demo-anagrafico, essendo il nostro nel frattempo diventato un Paese vecchio, come tale poco propenso a innovare e a ragionare sul futuro. E’ una condizione che oggettivamente favorisce la staticità sociale, la difesa dei privilegi acquisiti e il conservatorismo culturale.
Ciò non toglie che gli italiani in maggioranza, per quanto timorosi del futuro che li aspetta, abbiano desiderio di rimboccarsi le maniche e di lasciarsi alle spalle questo brutto periodo. Su questo il Capo dello Stato ha ragione. C’è un’ansia di ripartenza, una diffusa voglia di rinascita, che però andrebbero canalizzate ed esaltate da una politica all’altezza. E che non può essere – se davvero il nostro obiettivo futuro è un nuovo “miracolo italiano” – quella rappresentata dai partiti attualmente in campo. Che questa crisi ha svelato per quel che sono: attori impegnati a recitare un vecchio copione, inadatta alla contingenza drammatica che stiamo vivendo e ai cambiamenti che ci aspettano.
Basta guardarli uno ad uno. Berlusconi è il monumento a se stesso, che appare saggio solo per la pazzia e insipienza altrui. Il M5S è un non-partito di non-politici che in poco tempo s’è lasciato alle spalle i suoi propositi di moralità e di radicale rinnovamento per votarsi a due pratiche antichissime: la spesa assistenziale a danno delle finanze pubbliche e la spartizione delle poltrone a beneficio dei fedelissimi. Il renzismo è la sfida caparbia di un uomo che ha perso l’occasione della vita e sembra animato solo da un insopprimibile desiderio di rivalsa. La destra sovranista gioca tutto sull’allarmismo, sulla paura e su un ricettario economico autarchico che se mai dovesse andare al governo essa per prima sarebbe costretta a negare. Il Pd ha dalla sua la forza del proprio radicamento nell’establishment, a partire da quello europeo, ma è una sinistra al dunque senz’anima e senza idee.
Non si va dunque lontano senza immaginare una radicale scomposizione di questo quadro, dal momento che la premessa per far ripartire economicamente l’Italia è che essa venga politicamente rivoltata come un calzino. Il che significa modernizzarne le istituzioni e gli apparati burocratici, ridisegnarne il sistema delle autonomie, ridefinirne senza equivoci la collocazione internazionale, riprogettarne le infrastrutture strategiche, sino a realizzare in modo organico tutte le riforme e innovazioni che non s’è avuto il coraggio di fare negli ultimi tre decenni.
Se questo è l’obiettivo, ambizioso ma ineludibile, resta il dubbio se ci sia qualcuno disposto a raccogliere la sfida o in grado di interpretarla. Dovrebbe essere non l’ennesimo salvatore della patria a chiacchiere, ma stavolta un idealista pragmatico, capace di parlare – dopo una lunga stagione in cui sono prevalsi gli imbonitori e i dispensatori di promesse e annunci – il linguaggio, spesso duro, della verità, ma forse proprio per questo raccoglierebbe un vasto e diffuso consenso, avendo gli italiani di oggi capito che, come è stato per i loro nonni e padri, senza sacrifici, rinunce e sudore non si realizzerà nessun miracolo terreno, semmai continuerà il nostro lento e inesorabile declino.
*Editoriale apparso sui quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ del 27 aprile 2020
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