di Alessandro Campi
Dare i leader politici per morti anzitempo è una vecchia specialità del giornalismo politico italiano, che da sola spiega molto della crisi di credibilità in cui versa quest’ultimo. Col Berlusconi declinante, scomparente e agonizzante molti hanno scandito i migliori (o forse peggiori) anni della loro vita. Costoro sono nel frattempo invecchiati, in alcuni casi hanno avuto il tempo di pentirsi, mentre il Cavaliere sta ancora al suo posto. Si rischia ora di ricominciare con Salvini.
di Alessandro Campi

Dare i leader politici per morti anzitempo è una vecchia specialità del giornalismo politico italiano, che da sola spiega molto della crisi di credibilità in cui versa quest’ultimo. Col Berlusconi declinante, scomparente e agonizzante molti hanno scandito i migliori (o forse peggiori) anni della loro vita. Costoro sono nel frattempo invecchiati, in alcuni casi hanno avuto il tempo di pentirsi, mentre il Cavaliere sta ancora al suo posto. Si rischia ora di ricominciare con Salvini.

Che quest’ultimo sia in calo di consensi è indubbio: la pandemia gli ha tolto visibilità e centralità. E’ dura fare opposizione dura quando un intero popolo pende (per necessità e timore) dalla labbra del governo in carica, quale che sia, e a tutto pensa meno che di andare a votare. Resta il fatto che la Lega è pur sempre il primo partito d’Italia e che a portarla così in alto è stato proprio Salvini, con una strategia politico-mediatica – altamente personalizzata – tutta giocata sulla mobilitazione pubblica degli istinti e delle paure e su soluzioni di governo spesso più semplicistiche che semplici, ma comunque d’effetto.

Considerato l’esponente di punta del populismo europeo d’estrema destra, Salvini sembra avere come sua vera ideologia un vitalismo sempre in bilico tra anarchismo e opportunismo. Sebbene molti lo vedano come un potenziale autocrate, gliene manca in realtà il metodo e l’abito mentale: pare piuttosto un ribelle insofferente alle regole e a qualunque convenzione istituzionale, come si vide chiaramente quando ricoprì il ruolo di ministro dell’Interno. Con una simile antropologia è difficile ambire ad un ruolo da statista o governante. Ma evidentemente essa è bastata per intercettare, nel giro di pochi anni, un crescente consenso popolare, forte del quale Salvini s’è messo in testa di potersi lasciare alle spalle la matrice nordista, anti-romana e anti-meridionale della Lega per trasformare quest’ultima in una forza nazionale, sebbene tutta centrata sulla sua personalità: la Lega per Salvini Premier che per l’appunto in questi giorni ha preso definitivamente il posto del partito che per decenni aveva avuto come obiettivo istituzionale l’indipendenza della Padania e dunque la secessione e la dissoluzione dello Stato unitario.

Bene, la crisi odierna del salvinismo – al di là dei suoi momentanei problemi giudiziari e dall’affanno che prima o poi colpisce chiunque giocando la carta di un eccessivo presenzialismo finisce per produrre un fisiologico rigetto – sta esattamente in questo salto politico-culturale, dal nazionalismo padanista al sovranismo tricolore, che egli riteneva facil e che invece si sta rivelando complicato. A dispetto dei successi elettorali che la Lega ha avuto anche nel Sud d’Italia è infatti emerso, sempre più forte, un problema di credibilità: un conto è il voto di protesta, o quello dato sull’onda della simpatia per l’uomo e le sue battaglie, un conto è sposare un progetto politico che intimamente non si ritiene convincente.

Questo sta accadendo nel Mezzogiorno nei riguardi della Lega salviniana, che non a caso incontra anche un alto problema: quello di darsi una classe politica che non sia composta solo da transfughi o opportunisti, ma da militanti disposti a sottoporsi ad una lunga gavetta e fedeli alla causa, secondo il modello organizzativo d’impianto simil-leninista che la Lega ha messo a punto nei suoi storici territori d’insediamento.

Se chi nasce tonto non può morire quadrato, come vuole la saggezza popolare, chi politicamente è nato per liberare il Nord produttivo dalla zavorra di un Mezzogiorno piagnone e sprecone (dei soldi altrui) difficilmente può trasformarsi nel credibile difensore degli interessi di una parte d’Italia alla quale per troppi anni ci si è rivolti con malcelato disprezzo. È questa la banale verità che spiega i malumori serpeggianti all’interno stesso della Lega, tra militanti, dirigenti e governatori del Nord, che temono la diluizione della loro identità politica (anche se certe voci di scissione sono troppe interessate per essere prese sul serio). Ma è anche la banale ragione che, in prospettiva nemmeno troppo lontana, potrebbe portare gli elettori meridionali che hanno simpatizzato per Salvini a ricredersi.

Specie se si considera la posta in gioco straordinaria che s’annuncia per i prossimi anni: la distribuzione, sulla base di piani di investimento e progetti di sviluppo ancora tutti da costruire, dei massicci finanziamenti concessi all’Italia dall’Unione europea. Per in Mezzogiorno si tratta di un’occasione straordinaria, ma con tutta la buona volontà chi può pensare che la battaglia per il suo rilancio possa essere condotta dalla Lega per Salvini Premier? In politica contano le passioni, ma alla fine decidono gli interessi. E quelli del Sud non coincidono con quelli di un partito che non smetterà mai di essere longa manus politica del Nord, comunque si chiami.

*Editoriale apparso su “Il Mattino” del 6 agosto 2020

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