di Alessandro Campi
Roma, capitale d’Italia e città universale, è una grande questione nazionale: la sua crisi (politica, economica, sociale) non può dunque che riflettere quella di un intero Stato. Per parafrasare un celebre e polemico slogan, “capitale malridotta, nazione inetta”.
Il dibattito avviato dieci giorni fa dal ‘Messaggero’, relativo al profilo – necessariamente alto e autorevole – che dovrà avere il prossimo inquilino del Campidoglio, ha avuto il grande merito di richiamare i partiti (a partire dai loro leader),
di Alessandro Campi

Roma, capitale d’Italia e città universale, è una grande questione nazionale: la sua crisi (politica, economica, sociale) non può dunque che riflettere quella di un intero Stato. Per parafrasare un celebre e polemico slogan, “capitale malridotta, nazione inetta”.

Il dibattito avviato dieci giorni fa dal ‘Messaggero’, relativo al profilo – necessariamente alto e autorevole – che dovrà avere il prossimo inquilino del Campidoglio, ha avuto il grande merito di richiamare i partiti (a partire dai loro leader), le forze sociali e il mondo giornalistico-culturale alle loro responsabilità, rompendo un silenzio ipocrita che durava da troppo tempo. E di far capire come la scelta dei candidati per le elezioni amministrative che si terranno nella primavera del 2021 non sia solo una questione di nomi, ma anche di progetto politico e visione strategica. Non serviranno, in altre parole, candidati “famosi”, tali secondo il metro della cultura dell’intrattenimento di massa, o che possano fregiarsi di essere degli outsider estranei al “teatrino della politica” (basta semmai col “teatrino dell’antipolitica”), ma che abbiano al contrario un loro intrinseco prestigio sociale, riconosciute competenze professionali e capacità politiche oggettive.

Al tempo stesso, il dibattito di questi giorni è servito per rimuovere molti luoghi comuni, come quello relativo, ad esempio, alla strutturale ingovernabilità di Roma e dei romani, frutto di chissà quale tradizione culturale negativa: in realtà il mal governo degli ultimi tre lustri (iniziato con Alemanno, proseguito da Marino e perfezionato, per così dire, dalla Raggi) non è una condanna della storia o una fatalità, ma il frutto delle scelte sbagliate, ovvero delle non scelte, fatte da amministratori, peraltro di colore politico assai diverso, evidentemente non all’altezza del loro ruolo. Ragione di più per puntare, questa volta, su personalità che possiedano, almeno sulla carta, le caratteristiche minime richieste a chi avrà nelle sue mani il governo di Roma: forza decisionale, rigore morale, equilibrio politico, conoscenza dei dossier e della macchina amministrativa, senso istituzionale e sguardo rivolto al futuro.

Per non parlare delle semplificazioni e delle analisi grossolane che spesso si leggono sulla Capitale (su tutte quella che attribuisce il suo attuale declino a cause generiche quali l’affarismo politico o l’eccessiva pervasività delle burocrazie ministeriali) e di cui ha fatto ieri giustizia l’intervista, ospitata anch’essa su queste colonne, all’economista Marco Simoni. Che ha spiegato bene, da un lato, quale sia la complessità (e per molti versi l’unicità) di Roma dal punto di vista territoriale, socio-demografico, ed economico-produttivo (e quanto complessa sia l’origine della sua attuale crisi, legata all’esaurirsi di un modello di sviluppo per lungo tempo centrato sulla piccola manifattura, sull’impego pubblico e sull’espansione edilizia); e, dall’altro, come per favorirne il rilancio (che andrebbe a beneficio dell’intero Paese) non basti invocare o promettere la “buona amministrazione” (manutenere le strade, ritirare la spazzatura agli orari convenuti e curare il verde pubblico dovrebbero essere pratiche quotidiane e scontate, non obiettivi strategici), ma serva un mix molto più articolato: una grande mobilitazione di risorse economiche ed energie sociali, pubbliche e private; un nuovo e più efficiente modello gestionale, soprattutto per quel che concerne i servizi pubblici comunali e la rete delle società municipalizzate; dotazioni finanziarie straordinarie a misura dello status particolare di cui  Roma gode dal punto di vista politico-istituzionale e storico-simbolico; progetti d’investimento innovativi (anche sul versante urbanistico) da programmare lungo un arco almeno decennale.

Tutto questo dibattito rischia però di scontarsi con il vizio tipico della politica italiana: anteporre i calcoli di bottega e l’utile di parte all’interesse generale. Il leader politici nazionali, d’ogni orientamento politico, ai quali si è richiesto un impegno più stringente nel vaglio delle candidature e nella loro scelta finale, sinora si sono trincerati dietro discorsi fumosi che non lasciano presagire nulla di buono. Se da un lato, a loro scusante, c’è il fatto che la data del voto romano è ancora lontana e che molto conteranno, nelle valutazioni dei diversi partiti, i risultati delle regionali del prossimo settembre, dall’altro c’è da temere, a loro aggravante, che la partita sul futuro sindaco di Roma venga giocata al ribasso, il che significa utilizzare la poltrona del Campidoglio come merce di scambio nel mantenimento degli equilibri (assai precari e spesso conflittuali) che governano sia la coalizione di centrodestra sia l’alleanza di governo giallo-rossa.

Un esempio di questo rischio è stato offerto, nei giorni scorsi, dall’annuncio di ricandidatura del Sindaco in carica. Si è molto speculato sulle ragioni che hanno indotto Virginia Raggi, nonostante il suo bassissimo indice di popolarità e i sondaggi che la danno in vistoso calo di consensi, ad una simile decisione. Probabilmente ha voluto giocare d’anticipo sui possibili avversari, peraltro ancora sconosciuti e soltanto ipotetici (tutti i nomi che sono stati sondati o annunciati come candidati hanno sinora smentito). Forse è stato un modo per crearsi un’alternativa politica fuori dal Campidoglio: una candidatura data con così tanto anticipo si può sempre ritirare, allorché si dovesse ricevere qualche generosa offerta (un posto nel governo Conte quando nel prossimo autunno, come molti sostengono, si procederà ad un rimpasto?).

Di certo quella della Raggi è stata una decisione che ha creato parecchio scompiglio. Ha offerto al M5S il destro per rimangiarsi, sotto il sole di Ferragosto, il suo più classico marchio di fabbrica: il limite dei due mandati per le cariche politiche ricoperte dagli esponenti del Movimento. La ribellione alle regole della Raggi (meno estemporanea e solitaria di quanto si pensi) è stata il salvacondotto politico che i vertici grillini aspettavano con ansia: la piattaforma Rousseau, more solito, ha prontamente ratificato una decisione già presa.

Ma il risultato politicamente più interessante di questa decisione è stato quello di aver messo il Pd di Zingaretti in una seria difficoltà. Caduto l’altro tabù grillino, quello che impediva al Movimento di stringere alleanze con qualunque partito, quale sarà la scelta per Roma degli eredi di quella sinistra che a lungo l’ha governata?  Fino a un mese fa, il Pd sembrava intenzionato a dare battaglia per il Campidoglio, facendo scendere in lizza qualche suo esponente di peso, proprio contro la Raggi e la sua eredità giudicata negativa. Ora che la formula del governo giallo-rosso guidato da Conte può potenzialmente essere replicata sul territorio, come farà il Pd a mettersi in competizione diretta, oltre che con la destra, anche con il M5S proprio nella gara per il Campidoglio?

Niente di più facile, in queste condizioni, che il Pd a Roma finisca per accontentarsi di un candidato debole o non particolarmente combattivo, ovvero che si dia come obiettivo preminente quello di sommare i propri consensi con quelli grillini al secondo turno. Anche a costo di votare la Raggi, se dovesse essere quest’ultima ad andare al ballottaggio, Davvero un bel capolavoro politico, per non dire della beffa per la città.

Nel frattempo, nel centrodestra poco o nulla si muove. Tutti dicono che tocca a Giorgia Meloni, che è la leader romana di un partito romanocentrico che da mesi vola nei sondaggi, operare nel ruolo di kingmaker. Escluso un suo impegno diretto, tocca a lei individuare il nome che potrebbe essere – secondo molti osservatori – quello vincente. Ma ancora una volta occorre ripetere – come appunto si sta facendo su queste pagine ormai da giorni – che un nome (per quanto prestigioso e autorevole) senza un progetto politico alle spalle, ambizioso e innovativo, e senza una visione del futuro a Roma semplicemente non serve. La posta in gioco delle prossime elezioni non è la conquista del Campidoglio, ma la trasformazione e il rilancio di una città dopo una stagnazione sin troppo lunga. Il problema è chiaro, quello che non è chiaro è se le risposte della politica e le scelte dei partiti saranno all’altezza di questa sfida.

*Editoriale apparso su “Il Messaggero” (Roma) del 18 agosto 2020

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