di Alessandro Campi
Le imminenti elezioni regionali saranno interessanti da seguire per gli effetti che potrebbero derivarne: quelli sul governo, sui rapporti tra i partiti che lo sostengono, sugli equilibri interni al centrodestra, sulle ambizioni di questo o quel leader, ecc. Reggerà Conte ad una sconfitta rovinosa del M5S? Il partito della Meloni sopravanzerà la Lega di Salvini? Riuscirà il Pd a mantenere una qualche presa su quell’Italia di mezzo – dalla Toscana alle Marche – dove un tempo la sinistra esercitava un’egemonia assoluta?
Ma accanto a questi, che sono gli effetti primati e diretti, altrettanto interessanti da valutare saranno quelli secondari o indiretti, relativi ad esempio agli umori collettivi che più di altri avranno inciso sugli orientamenti di voto. E’ la prima volta gli italiani sono chiamati a pronunciarsi politicamente, in una percentuale assai significativa, dacché è scoppiata la pandemia. Gli ultimi mesi hanno registrato un accumulo crescente di ansia e preoccupazione, quando non di rabbia vera e propria. Come si tradurranno elettoralmente questi stati d’animo?
In un Paese che da anni inclina al radicalismo (in primis verbale), grazie anche al cattivo esempio offerto da molti esponenti di punta della scena nazionale, attraversato da crescenti tensioni sociali e ideologiche, non c’è il rischio che ad uscire premiati dal voto siano soprattutto quei partiti che del risentimento sociale, delle paure diffuse nell’opinione pubblica e delle frustrazioni generate dalla crisi economica hanno fatto un’efficace arma di propaganda? Il che equivale a chiedersi se esistono ancora elettori che provano invece a farsi guidare dalla ragione e dal pragmatismo più che dalle pulsioni del momento. Come voteranno costoro, sempre che lo facciano?
Per decenni la rappresentazione più diffusa degli italiani è stata quella che li voleva in maggioranza inclini alla moderazione, al quieto vivere e alla prudenza, sino al limite estremo del conformismo sociale. Non sono certo mancati, nella vita della democrazia italiana, fenomeni di protesta collettiva e fasi storiche in cui lo scontro politico-sociale ha assunto forme assai virulente, che hanno persino fatto temere per la tenuta del nostro tessuto civile e istituzionale. Ma si è sempre trattato, a ben vedere, di fenomeni che avevano per protagoniste delle minoranze particolarmente attive, meno forti e radicate nel corpo sociale di quanto lasciasse intendere la loro capacità di mobilitazione e propaganda.
Le piazze che questi gruppi riempivano, le manifestazioni spesso imponenti che erano in grado di organizzare, non si sono mai tradotte in grandi scorpacciate elettorali o in un consenso davvero di massa. Nella storia repubblicana, voti e consensi andavano in larga maggioranza alla Dc, un partito interclassista che sul compromesso sociale ha sempre fondato la sua visione della società, e al Pci che dietro la facciata pseudo-rivoluzionaria era un partito d’ordine, come tale affatto incline al movimentismo.
E anche quando tutto un sistema politico franò, in seguito a Mani Pulite e Tangentopoli, l’impressione fu che gli italiani, piuttosto che inseguire chissà quale avventura, cercassero in realtà quanto di più simile al vecchio ci fosse tra il nuovo. A partire da Silvio Berlusconi, sceso in campo per realizzare una “rivoluzione liberale”, accusato dai suoi avversari di voler emulare l’autoritarismo mussoliniano, mentre in realtà la sua Forza Italia non è mai stata altro che una riedizione in salsa carismatica, col technicolor al posto del bianco e nero, della Dc. E’ stata cioè il partito all’interno del quale per almeno venticinque anni si sono accasati milioni di italiani poco amanti dell’avventurismo e dei cambiamenti troppo repentini, moderati e nemici dell’estremismo ideologico. Gli stessi grosso modo che in passato si erano riconosciuti nel simbolo dello scudo crociato e negli altri partitini cosiddetti laici.
Su questo pezzo d’Italia nel corso degli anni si è scritto di tutto, soprattutto in termini polemici. Ne sono state offerte letture denigratorie e criminalizzanti, la più diffusa e banale delle quali faceva coincidere il consenso offerto a Berlusconi con un’innata inclinazione all’illegalità. Ma quello che è successo nel frattempo con l’ascesa preponente del populismo in tutte le possibili varianti (dall’antipolitica venata di apocalisse predicata da Grillo al sovranismo anti-europeo e anti-immigrati di Salvini), ha fatto giustizia di molte di queste letture, che spesso prescindevano da un’attenta analisi sulla reale composizione sociale e sulle reali aspettative degli elettori che il Cavaliere ha raccolto intorno a sé.
Elettori che – ecco il punto che si intende segnalare – nel corso dell’ultimo decennio, nel mentre la leadership berlusconiana è andata fisiologicamente scemando, è come se fossero spariti dall’orizzonte pubblico. I moderati, un tempo nerbo della politica italiana, ricercati e blanditi da tutte le forze politiche, maggioranza culturalmente silenziosa ma elettoralmente e socialmente decisiva, sono divenuti sempre più marginali e invisibili.
C’è chi pensa che questa crescente irrilevanza abbia un fondamento sociale e statistico. E’ intervenuto un cambio di generazione (e di mentalità) che ha assottigliato drasticamente i ranghi del moderatismo. Altri pensano che i cosiddetti moderati nel frattempo si siano semplicemente radicalizzati: hanno cioè ceduto anch’essi alle sirene della propaganda populista. Ma è anche possibile che molti di essi abbiano semplicemente fatto una scelta politica nel segno del ripiego: non riconoscendosi in nessuna delle forze che vanno oggi per la maggiore hanno semplicemente smesso di votare, si sono parcheggiati nell’area del non voto e del disimpegno, in attesa di tempi migliori.
L’Italia della rabbia, della protesta e del risentimento è quella che si vede (e si sente) di più. Ma non è l’unica. C’è un’Italia sommersa e silenziosa – un partito potenziale di almeno il 20% – che anche alle prossime regionali farà fatica a sentirsi adeguatamente rappresentata, specie ora che Pd – mentre sembra proseguire il declino inarrestabile di Forza Italia – ha abbandonato la strada del riformismo pragmatico per unirsi strategicamente al grillismo. Possibile non ci sia nessuno interessato a parlare a questo pezzo di Paese o capace di farlo? Anche di questo bisognerà discutere passate le prossime amministrative.
*Editoriale apparso su “Il Mattino” del 16 settenbre 2020
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