di Luca Falciola

Alla terza mamma che mi ha confidato quanto gioirebbe nel vedere il proprio figliolo sulle barricate a contestare questa politica fatiscente e che mi domanda perché i giovani se ne stiano lì, con le mani in mano, mentre la casta ci porta al naufragio e ci sbeffeggia, ho iniziato a pensare che la questione, forse, meritasse qualche riflessione. Anche perché le signore di cui sopra – nonostante una di loro mi abbia persino sussurrato che non le dispiacerebbe affatto se la sua bimba, oggi un delizioso batuffolo in età pre-scolare, facesse la terrorista da grande – non le ho incontrate ad una manifestazione di black block.

D’accordo che il virus dell’antipolitica ha radici antiche in Italia e che probabilmente non è mai stato così aggressivo e penetrante come in questo periodo. D’accordo che ciclicamente riemergono bollori sessantottini, specialmente tra chi non si ricorda com’è andata a finire. D’accordo che – si sa – le mamme nostrane farebbero di tutto per vedere i loro pargoli realizzati e, coi tempi che corrono, anche il rivoluzionario di professione potrebbe essere un’alternativa redditizia. Ma dietro alle provocazioni più o meno serie delle suddette madri resta un dato di fondo su cui ragionare: i giovani italiani stanno reagendo tiepidamente, per non dire apaticamente, alla gravissima crisi politica, economica, sociale e perfino morale del Paese.

Risparmio la lista, ormai pleonastica (e già su questo ci si potrebbe fermare a riflettere), delle criticità, degli affanni, delle indagini in corso e delle ingiustizie di questa Italia al tempo del suo centocinquantesimo compleanno. La conosciamo tutti. Ho esitato a pensare che avesse ragione Ernesto Galli della Loggia ad affermare che «l’Italia vive oggi il momento forse più critico della sua storia postbellica», persino più pericoloso e destabilizzante degli anni di piombo. Ma la sua fotografia, a ben vedere, non è poi così caricaturale. Perché, se è vero che negli anni Settanta c’era la Dc dei Salvo Lima e dell’amico Sindona, c’erano bombe, brigatisti, golpisti, sprechi e scandali, c’erano ancora figure politiche di riferimento, c’erano ministri che si dimettevano per i propri errori e c’era una democrazia che, dopotutto, non era così malandata se è stata capace di serrare le fila (seppur tardivamente) e di sconfiggere il terrorismo. Oggi – e non mi riferisco al solito ‘Berlusconi intercettato’ che, detto così, sembra pure un personaggio dell’Ariosto o del Boiardo, anche se di cavalleresco non so… – si fatica a trovare un elemento positivo al quale aggrapparsi. Per di più – e qui penso in particolare ai giovani – c’è un tasso di disoccupazione che oscilla al di sopra dell’8% (quando negli anni bui del compromesso storico si aggirava tra il 6% e il 7%) e una disoccupazione giovanile che lambisce il 30%. No future? Non mi spingo così in là, ma la situazione è davvero desolante, specialmente se hai meno di trent’anni ed hai la ‘sfortuna’ di aver studiato. Ah, dimenticavo, l’altro dì anche Pietro Ostellino ha messo la sua pietra sopra alle speranze degli speranzosi: «Siamo gli assiro-babilonesi del Terzo Millennio». Ci mancava.

Ciò detto, perché nessun assalto al Parlamento (a parte qualche fiammata estemporanea)? Perché nessun movimento riconoscibile di indignados o di looters all’inglese? Perché nessuna occupazione universitaria (a parte qualche pallida imitazione)? Perché nessun Sessantotto, nessun Settantasette, nessuna Pantera? Dove sta il Mario Capanna del 2011? Perché non arrivano degli «allegri incendiari dalle dita carbonizzate» che, almeno nell’arte, facciano un po’ di rivoluzione come sarebbe piaciuto al vecchio Marinetti? Niente. Anzi, peggio. Ultima notizia da Milano: in risposta alla drammatica crisi che flagella il Paese, i giovani del capoluogo lombardo hanno finalmente scelto di reagire: aperta una nuova discoteca in piazza Affari, sotto all’edificio della Borsa. Balla che ti passa.

Tento di abbozzare sinteticamente, per le madri sopra evocate, due spiegazioni di questo (vero o presunto) caso di accidia nazionale. L’Italie s’ennuie? Credo di no, non solo perché già qualcuno a dir così, in Francia, nel marzo del ‘68, ci ha fatto una figuraccia, ma anche perché ritengo che i giovani italiani siano oggi estremamente e coscientemente esasperati ma che, per ora, alcuni fattori facciano da sordina alle loro voci. Il primo elemento da tener presente è che la contestazione non è detto che debba per forza essere chiassosa e manesca, esibita ed irruenta. Specialmente in Italia, il doloroso lascito degli anni Settanta e la fine dei paradisi ideologici hanno probabilmente ispirato – per reazione – una prudenza e un pragmatismo un tempo sconosciuti, forse persino una sorta di cinismo. I contestatori, svaniti i sogni di palingenesi e gli incubi di fascismo, spesso si orientano su singole problematiche, si organizzano in base a finalità concrete. Inoltre, la militanza e la critica al sistema hanno assunto da tempo, inevitabilmente e fortunatamente, anche forme diverse dall’attacchinaggio dei manifesti, dai cortei, dai servizi d’ordine e dagli scontri di piazza. Ci sono evidentemente ancora i No-Tav e altri inguaribili nostalgici. Ma i repertori d’azione sono spesso invisibili, pur diffondendo in modo rizomatico una coscienza d’opposizione. Si sostanziano nelle reti, nei blog, nei social network, nei twitter più seguiti. Tuttavia questo fenomeno, pur imponente e in alcuni casi carico di rabbia, non si sta trasformando da pungolo virtuale in proposta concreta (o in scontro diretto) per il cambiamento. Così come si constata che i rapporti d’amicizia finiscono per essere sterilizzati da Facebook, per di più con l’illusione che non sia così, non è difficile immaginare che la protesta stia facendo la stessa fine. C’è chi giura di no, che una clicckata li seppellirà, i potenti, ma per ora la protesta del web sembra anch’essa annegata nel blu cobalto di Zuckerberg.

Il secondo, e più decisivo elemento, credo sia il ‘fattore EasyJet’: oggi con 30 euro si vola dappertutto in Europa e con un piccolo sforzo si va anche negli States, tutti sanno almeno arrabattarsi con un’altra lingua, quasi tutti gli universitari hanno fatto l’Erasmus e molti si sono laureati o dottorati in un altro Paese. La via d’uscita dell’estero, l’uscita d’emergenza quando il sistema è bloccato, è a portata di mano e di portafoglio. I giovani e gli studenti, da sempre massa critica pericolosa – la scintilla che incendia la prateria, per fare un omaggio al povero Mao, che ormai non se lo ricorda più nessuno –, hanno un orizzonte alternativo allettante dietro l’angolo. Differenza non da poco rispetto ai contestatori in bianco e nero che ragionavano nel recinto dei loro confini nazionali e che, anche quando pensavano idealmente alle lotte del Che o dei Vietcong, le trasferivano nel cortile di casa o nel quartiere vicino, dove c’era la fabbrica e abitava la fidanzata. La rivoluzione, allora, andava per forza fatta in Italia, perché normalmente era lì, e solo lì, che si poteva progettare il proprio futuro. Aggiungo: quello che è sempre stato il classico vivaio degli organizzatori e degli agitatori delle lotte giovanili, ovvero il bacino dei precari dell’università, dei ricercatori e dei docenti senza contratto, come arci-noto è il più esposto alle sirene dell’estero e il più soggetto all’emorragia dell’emigrazione. Coloro i quali sono rimasti in Italia lottano per la sopravvivenza, mentre gli gli expat sono sempre indignatissimi – mi sembra di sentirli – ma se ne stanno di solito nei campus americani tra gli scoiattoli o comodamente seduti alla British Library e di tornare in provincia di Avellino a riorganizzare le lotte non so se ne abbiano esattamente voglia.

Forse, e qui concludo sapendo di deludere le mamme, dobbiamo ricordarci che siamo pur sempre nel paese di Nerone che suonava l’arpa mentre Roma bruciava tra le fiamme. E infatti oggi, per non smentirci, balliamo impudici sotto la Borsa, mentre i titoli sprofondano. Siamo fatti così.