di Fabio Massimo Nicosia
Da un po’ di tempo, con le tempeste finanziarie in atto, con i default rischiati o in corso, con le accuse alla “speculazione” di volere la crisi di questo o quello Stato, abbiamo appreso un concetto: che occorre ridefinire la nozione stessa di Stato.
Fino ad oggi, infatti, la definizione di Stato comunemente riconosciuta era quella di derivazione weberiana di monopolista della forza, e quindi, in sostanza, di tutto, dato che la forza viene assunta come fondamento del diritto, e quindi di tutto quel che ne consegue, nella misura in cui attraverso il diritto è possibile effettuare tutte le scelte politiche che si ritengono opportune.
Certo, lo Stato liberal-democratico, rispetto a uno Stato totalitario o dittatoriale, conosce un freno a questa facoltà, stante la presenza delle opposizioni e della libera critica, oltre che dei meccanismi costituzionali, atti a rallentare le decisioni per renderle più prudenti. Si pensi poi ai mass-media, che, senza usare direttamente la forza fisica, esercitano un’incidenza fondamentale sul formarsi dell’opinione pubblica, quindi dell’elettorato, e quindi ancora del diritto. I programmi televisivi sono un “legislatore” in servizio permanente effettivo, dato che diffondono consuetudini, modi di vedere le cose, plasmano il gusto e orientano in una direzione o nell’altra ciascuno di noi. Quando poi i mass-media sono di Stato o titolarità di un capo di governo, il problema si complica ulteriormente.
Ma, a parte ciò, in un modo o per l’altro, la politica, nel modello statuale, riesce sempre, prima o poi, a imporre il proprio volere sulla società tutta. Questo è quanto si credeva fino a poco tempo fa, prima cioè che la globalizzazione dei mercati non dispiegasse tutta la propria energia, ponendo in discussione il concetto di sovranità di uno Stato all’interno del proprio ambiente, costituito dal mix popolo più territorio.
In realtà, il presunto monopolio del diritto non è mai stato una effettiva prerogativa dello Stato, che ha sempre dovuto convivere con consuetudini, locali o nazionali, a esso estranee od ostili, basti pensare alla mafia, che contendono allo Stato il monopolio della forza in determinate aree del Paese, e che, in nome della teoria giuridica istituzionalista di Santi Romano, è anche assurta a studi che ne hanno fornito una definizione in termini di “ordinamento giuridico”.
Più che un vero monopolista, lo Stato merita semmai di essere qualificato, invocando un istituto del diritto comunitario europeo, un soggetto in “posizione dominante”, o, per meglio dire, in “abuso di posizione dominante”. Esso è quindi un attore, un “giocatore” comunque collocato in uno spazio giuridico più ampio del proprio, a tacere del diritto internazionale, e questo spazio è dato dal Mercato. Mercato in cui oggi operano i famosi “speculatori”, ai quali gli Stati devono sovente chinare la testa, tra un indice MIB e uno spread, come abbiamo imparato in questi giorni.
Lo Stato si erge come un’isola montana nell’oceano, o come un iceberg nel mare, che non è però ghiacciato, perché esprime la fluidità e la volatilità di un Mercato in perpetuo flusso e movimento. A ben vedere, lo Stato non è che un soggetto di questo Mercato, un soggetto particolare, che somiglia al matto del villaggio, dato che continua a “rivendicare” ogni monopolio, ma la novità è che questa pretesa sta entrando in crisi di legittimazione, come dimostra anche il ruolo prevalente assunto sempre di più dalle banche centrali, punto di intersezione tra lo Stato e il resto del Mercato.
Tant’è che, in Italia, la Banca centrale, che tecnicamente non cessa di essere un soggetto pubblico, è stata oggetto di un tentativo di configurazione molto discutibile in termini di società per azioni, il cui azionariato è diffuso tra i più grandi istituti di credito del Paese, sicché i controllati controllano per legge il proprio controllore.
E allora succede questo, che la ricchezza di cui godono i cittadini non viene considerata in questo gioco, si guarda solo ai bilanci degli Stati, come se questi fossero davvero indicativi del livello di vita della popolazione. Sia consentita in proposito una considerazione retrospettiva sulla cosiddetta “tassa per l’Europa”, introdotta dal primo governo Prodi, quale balzello asserito indispensabile per rientrare nei parametri di Maastricht ed entrare nell’area dell’Euro. Ammettiamo che il bilancio dello Stato fosse pari a “-100”, e che per “mettere a posto i conti per entrare nell’Euro” occorresse un bilancio invece di “-50”; i “50”, che andavano reperiti, andavano quindi prelevati, come suol dirsi, “dalle tasche dei cittadini”. Ma in che senso una società con propri cittadini con una dotazione di “50” in meno nelle proprie tasche, e con uno Stato con “50” in più in bilancio, sarebbe più florida? Nella migliore delle ipotesi, si tratterebbe di due situazioni equivalenti, dato che i “50” trasferiti continuano a far parte della società italiana nel suo complesso; nella peggiore delle ipotesi, quella della lettura liberista, si tratterebbe invece di un passo indietro, dato che i “50” nelle tasche dei cittadini sarebbero destinati a un’allocazione più efficiente, se non altro deliberata e voluta, che non trasferendo quei “50” nel “pozzo senza fondo” dell’apparato burocratico. Il Presidente Prodi ha viceversa ritenuto di far credere alla cittadinanza che, trasferendo di netto “50” dalle tasche private allo Stato la nostra società e la nostra economia sarebbero andate incontro a un miglioramento (?), dal punto di vista dello stesso giudizio delle istituzioni europee. Se è vero che a tale implicazione avrebbe condotto il Trattato di Maastricht, su quali basi tecniche, sul fondamento di quali cattive consulenze, le istituzioni europee hanno formulato un simile deludente, “statalistico” giudizio? E oggi, siamo da capo, o ci sono differenze che mi sfuggono?