di Renata Gravina

La Grecia rimette in questione l’efficacia delle misure d’austerità in Europa. Mentre orde di manifestanti occupano quasi tutti i ministeri di Atene come risposta alla chiamata di Adedy, il sindacato dei funzionari, e con la richiesta di  “lavoro per i genitori e libri per i figli” – ora che i  tagli governativi sono al top – “l’ Eurogruppo si riunisce a Lussemburgo dove la voce della Grecia è filtrata attraverso comunicati di segno negativo in merito agli impegni di riduzione del deficit statale.

Le riduzioni previste per il 2011 e per il 2012 non avranno infatti gli esiti sperati. Un avvenimento che rimette in questione proprio l’ austerity come soluzione anti-déficit.

Il paese prevede di portare la soglia del PIL all’ 8,5%  entro il  2011, contro il 10,5% registrato nel 2010. Questo è il risultato del progetto  di calcolo budgetario pianificato fino al  2012 ed esaminato nella seduta del Consiglio dei Ministri, presieduta dal primo ministro Georges Papandréou domenica sera. Resta una soluzione deludente rispetto all’obiettivo del 7,4% di PIL  fissato lo scorso giugno come obiettivo del governo ma è certamente migliore rispetto alla proiezione delineata all’inizio di settembre, da parte della troïka (UE-FMI-BCE) dei creditori di Atene, la quale stabiliva un probabile livello del PIL da attestarsi intorno al 9,5%.

 

Dai responsabili della  troïka dipende il futuro della Grecia. Incaricati di controllare le finanze pubbliche del paese e l’allineamento dei conti pubblici sullo standard richiesto, essi avevano lasciato Atene il 2 settembre con la richiesta d’introdurre nuove misure correttive per ridurre la spesa pubblica.

Il governo greco conta ormai quasi solo su una prosecuzione della riduzione del disavanzo pubblico per non scontentare i finanziatori, ma la situazione trascina il livello sociale al limite della guerra civile. A questo proposito più volte è stato richiamato un paragone tra la Grecia e l’ Argentina e di quest’ ultima l’economista Christine Rifflart ricorda l’ evoluzione.

Il 7 dicembre 2001, l’Argentina annunciava di non poter far fronte ai propri debiti ponendosi nel novero degli stati dichiaratisi falliti. Dieci anni più tardi, tale ruolo è spettato alla Grecia. I governi degli stati della zona euro si affannano a garantire che  “uno scenario argentino non è all’ordine del giorno in Europa” e come afferma  l’ultimo espressosi a tal proposito, Jean Leonetti, ministro francese degli affari europei “la Grecia eviterà il fallimento, perché è l’interesse dello Stato e del popolo greco”. I dati finanziari  però parlano chiaro, i comunicati governativi a maggior ragione. Il ristagno nel quale l’ Argentina si trovava nel 2001 ricorda ,allora, i problemi della Grecia, soprattutto in ordine a due aspetti: Buenos Aires aveva accumulato un debito abissale, che alla fine del 2001 ammontava a 132 miliardi di dollari e viveva in dipendenza del FMI con le conseguenti restrizioni finanziarie. Per continuare a percepire l’aiuto internazionale, il governo argentino era obbligato dal FMI a  moltiplicare la creazione di piani di rigore.  Come per Atene, l ‘Argentina non poteva neppure emettere denaro per sostenere la propria economia, poiché questo aveva perduto valore d’acquisto a causa di una consistente e nota fuga dei capitali. Anche in Argentina, poi, la crisi aveva generato una reazione sociale violenta e generalizzata, così come una miseria sempre più importante.

Ma per Buenos Aires il declino è durato soltanto un anno, poi, una forza opposta ha portato ad un abbassamento del livello di disoccupazione, dal 2003. “Il mancato pagamento ha permesso al governo di trovare margini di manovra di bilancio importanti – afferma l’ economista Christine Rifflart –  “La svalutazione del peso ha permesso di rendere le imprese argentine molto più competitive sulla scena internazionale”.

Ci si chiede se un tale raddrizzamento si possa sostituire alla linea d’austerity e dare ad Atene la possibilità di esperire quella forza contraria a partire da una condizione di  fallimento. Ma sono gli altri paesi europei a giocare un ruolo diverso nella scacchiera occidentale, tanto da non lasciare che la Grecia sperimenti una via tanto radicale. Come sottolinea Christine Rifflart, “il fallimento dell’Argentina non metteva in pericolo tutta una regione”.