di Saro Freni

Ci sono due modi di osservare la politica. Uno è quello cronachistico, pieno di dimenticabili dettagli, con una predilezione per i più folkloristici e coloriti. L’altro mira a cogliere, dalle vicende ordinarie, una tendenza di medio-lungo periodo. O, per lo meno, una riflessione teorica.

Prendiamo il caso della Lega. I retroscenisti – gli aruspici della civiltà mediatica – stanno dedicando pagine e pagine all’ultima rissa da osteria scoppiata tra le camicie verdi. Il pretesto non era memorabile: si trattava, molto modestamente, di scegliere il segretario provinciale di Varese. Con tutto il rispetto, non c’era di mezzo il destino del mondo. I lettori si scorderanno presto di questa bega da cortile, e il suo protagonista – tal Canton, che ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera francamente imbarazzante per l’esagerato servilismo verso il suo leader: una cosa a metà tra il culto della personalità e il ragionier Fantozzi – ripiomberà nell’anonimato dal quale è venuto. La ragione del contendere è presto detta. Il prescelto è un uomo del capo, e questa sembra essere la sua unica credenziale. Gli oppositori interni non volevano accettare una decisione pilotata dall’alto e hanno preteso un’elezione regolare. La richiesta è stata respinta e si è deciso di procedere per acclamazione, onde evitare di smentire platealmente Umberto Bossi. Urla, contestazioni, forse qualche sberla. Stop.

Questa è la cronaca. Niente per cui valga la pena guastarsi il sonno, francamente.

Eppure, questo fatterello rionale, buono al massimo per riempire qualche pagina di cronaca locale, insieme alla sagra della polenta e al compleanno centenario di nonna Adalgisa, ha occupato la quarta e la quinta pagina del Corriere della Sera (10 ottobre 2011), precedendo notizie, a lume di buon senso, più rilevanti, come l’accordo Merkel-Sarkozy sulle banche o le tristi vicende della minoranza copta in Egitto. Cosucce, a quanto pare, rispetto all’epico scontro tra il Canton (fotografato in posa solenne mentre mostra la V di vittoria, una cosa alla Churchill, all’altezza della sua nuova rinomanza pubblica, tanto per far capire che la grande ora batte sul quadrante della Storia, e allora ti viene in mente Yalta e invece qui siamo a Varese) e i suoi nemici.

Naturalmente, questo avvenimento è attraversato da un sottotesto che il direttore del quotidiano milanese aveva ben presente. Non è solo la crisi della Lega, che pure non è cosa di poco conto, visto che ad essa è legato il destino del governo. Si tratta della crisi del partito personale, soprattutto quando il capo è in evidente e malinconico declino. Senza la possibilità di organizzare il dissenso interno, in modo leale e non cospirativo, incanalarlo in forme politicamente sensate, proporre tesi alternative attorno alle quali costruire una proposta credibile e competere per la conquista della leadership, la politica si riduce a una ridicola adorazione del capo, a torbide cordate di potere e opache trame ordite nei ristoranti romani. Lo stesso discorso vale, naturalmente, per il Pdl, un partito che scambia il conflitto politico per lesa maestà e che si trova imprigionato in un unanimismo di facciata, dietro il quale si celano ambizioni legittime di una parte del suo ceto politico e velleitari progetti neo-centristi. Formalmente guidato da Alfano, personalità sbiadita, sprovvista di autonomia decisionale e di risorse politiche proprie – in termini di autorevolezza, prestigio, seguito personale –, il principale partito di governo si trova stretto tra un frondismo tardivo e disomogeneo e la più cieca fedeltà a Berlusconi. Una fedeltà impolitica, aziendale, opportunista. Tifo, più che altro. Tifo disperato per il cavallo, ora in difficoltà, sul quale si sono puntati tutti i propri quattrini.