di Matteo Chiavarone

La settimana passata si potrebbe riassumere con le tre parole del titolo, due nomi di persone (Tranströmer e Jobs) e uno (la scuola) che starebbe a significare il singolo istituto in senso fisico ma, soprattutto, una “istituzione organizzata sistematicamente a scopo di istruzione ed educazione”.

Steve Jobs come sappiamo tutti è morto (la notizia ha fatto il giro del mondo in pochissimi secondi); Tranströmer è vivo e vegeto e ha vinto il Premio Nobel per la letteratura ma in pochi lo conoscevano, anzi nessuno; la scuola traballa e scricchiola, se n’è accorta anche la “ministra” Gelmini che in una recente intervista a “la Repubblica” ha fatto un passo indietro, piccolissimo s’intende, dichiarando di “non essere più disposta a sopportare una diminuzione dei finanziamenti”.

Mi verrebbe da dire: era ora. Ma non lo faccio perché nella scuola ci sono dentro, per vie traverse ma comunque dentro (seguo un ragazzo con problematiche d’apprendimento). Non per paura, ben intesi. Il fatto è che credo che la scuola debba ripartire da capo, anzi da zero.

Credo che bisognerebbe ripartire dalla figura degli insegnanti che devono fare questo lavoro, perché vogliono farlo e non come rincalzo di carriere non riuscite. Credo che bisognerebbe ripartire da insegnanti orgogliosi di prendere per mano i propri alunni e portarli nella vita adulta, pagati e rispettati come tutti gli altri professionisti (medici, avvocati, commercialisti) e, in alcuni casi anche di più, perché ricoprono il ruolo più importante in una società. Maggiori diritti richiedono maggiori doveri, regole rispettate ma soprattutto condivise.

Credo poi che debba ripartire da noi, da tutti noi, perché la “problematica scuola” non si esaurisce nei due periodi della nostra vita: quando siamo alunni e quando siamo genitori di alunni. La scuola è un problema di tutti, della comunità. Intorno ad essa si creano i presupposti per un futuro che sia migliore del presente.

È giunto il tempo di abbandonare la stagione della retorica: meritocrazia non significa voti in decimi, cinque in condotta o un maggior numero di bocciature.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti, quello che si vede nei consigli di classe no. Quello è ancora peggio.

Quest’idea ci riporta all’Italia che leggiamo nel Cuore di De Amicis: escluso il corpo estraneo (Franti) si risolvono tutti i problemi della classe.

Quel corpo estraneo oggi sono gli stranieri e i molti ragazzi italiani che hanno difficoltà di apprendimento o che non hanno famiglie alle spalle che capiscano l’importanza della scuola.

Questa è una mia opinione ma un paese che esclude invece di provare ad accogliere non è il mio paese.

Ma torniamo alla settimana appena trascorsa. Mai come in questi giorni i media hanno provato a spiegare tutto attraverso stimoli sensoriali e iperboli troppo spesso esagerate.

Ci siamo trovati il muto Tranströmer contro il visionario Jobs.

Alla notizia del Nobel non ho sentito una persona che abbia detto: “lo conosco”. Per una volta anche i millantatori si sono fatti da parte (quelli che ci avevano provato con Herta Müller o Le Clézio). Tutti i giornali si sono sbizzarriti però con la storia del mutismo.

Il primo pensiero è andato al politically correct: se il “cieco” è un “non vedente”, il “muto” cos’è? “Non loquace”?

Il secondo, più profondo forse, è che il poeta da sempre più che muto, è cieco. È l’ἀοιδός (aedo) greco: non vede quello che vedono tutti ma, al contrario, vede quello che gli altri non possono vedere.

Nessuno che si è chiesto cos’abbia “visto” Tranströmer per meritare questo riconoscimento. Non mi bastano neanche le motivazioni dell’Accademia di Svezia: “perché attraverso le sue immagini condensate e traslucide ha offerto un nuovo accesso alla realtà”. Quali immagini? Quale realtà?

Nessuno o soltanto quei pochi che “vivono” di poesia si sono posti queste domande.

Jobs poeta non è, parla molto e ci vede benissimo. Scusate il presente ma è difficile declinare al passato dopo così pochi giorni. Jobs è un ingegnere. Anzi no un industriale. No: un informatico. Un designer? Un inventore? Chi era, cos’era Steve Jobs? Per molti un genio.

Matteo Renzi, sindaco di Firenze e novello rampollo della nuova sinistra “liberale cattolica radicale socialista imprenditoriale” se n’è uscito, testuale, con un “Steve Jobs da Cupertino è stato il Leonardo da Vinci del nostro tempo”. L’affermazione si trova ancora sul suo profilo di Facebook.

Ben intesi, in molti hanno fatto questo accostamento, ma forse mi sembra un po’ esagerato. Capirei che una frase del genere uscisse dalla bocca del primo cittadino di Cupertino, ma da quello di Firenze no. Accettando per un momento questo confronto che credo sia improponibile (consiglio in questo senso l’articolo di Alessandro Campi) non voglio essere comunque d’accordo, se non altro per un po’ di giustificato nazionalismo.

Ma Jobs ha comunque ricoperto quel ruolo che i poeti non sono più capaci di ricoprire (o forse che nessuno vuole più attribuirgli), ha visto quello che gli altri non vedevano.

Ha immaginato un futuro, diverso ma non per forza migliore, e ha tradotto le sue idee in oggetti al tempo stesso virtuali e palpabili.

Oggetti che sono modi di pensare e di vivere di una generazione che si sta facendo convincere che di smart, intelligente, ci sono solo i telefoni, i palmari.

Visionario è colui che “crede reali cose inesistenti, o che formula progetti irrealizzabili”.

Il fascino degli i-phone, degli i-pod, dei tablet è molto forte (anche se gli preferisco, da vecchio fruitore dell’open source, tutto il sistema Android): la tecnologia così avanzata fa uscire il “fanciullino” che portiamo dentro. Ci stavo cascando anche io.

Poi ho usato lo stesso procedimento che ho avuto con il premiato poeta svedese. Cos’ha visto Steve Jobs che non potevamo vedere? Questi attrezzi che usiamo quotidianamente? Cosa fa di Steve Jobs un visionario?

Non sono riuscito a rispondere.

 

Poi c’è stata la piazza rumorosa, quella degli studenti e degli slogan che sono arrivati alle nostre orecchie. Ero nel centro della mia città e sentivo moltissimo rumore, come in tutte le manifestazioni. Cercavo di dileguarmi per arrivare più velocemente alla mia destinazione.

Mi hanno insegnato che ogni messaggio ha bisogno di un emittente e di un destinatario. Se c’è qualcuno che parla, ci deve essere qualcuno che ascolta. È la logica della comunicazione. Colui che parla da solo è un matto. Urla al vento sono rumore.

A chi parlavano quei ragazzi? Chi è che li stava a sentire?

Non i politici, non i genitori che difficilmente ascoltano i figli, non gli amici o i coetanei che altrimenti sarebbero stati lì, non i passanti troppo presi dal loro vivere quotidiano. Chi?

I ragazzi non sono ascoltati perché le troppe proteste negli anni hanno fatto perdere di senso anche le manifestazioni giustissime, sacrosante.

E poi, non nascondiamoci, diamo poca retta a questi ragazzi.

Non leggono, sono sempre attaccati davanti al computer, stanno sempre con quelle cuffiette bianche all’orecchio, smanettano su telefoni e palmari dalla mattina alla sera.

Premetto: utilizzo anche io tutti questi strumenti e credo moltissimo nelle loro potenzialità.

Ma mi chiedo: non ha contribuito anche Steve Jobs a tutto questo?