di Stefano De Luca

L’impazienza e la velocità – una velocità che si fa frenetica – sono tra i segni più evidenti del nostro tempo. La velocità è un tratto profondo della modernità: velocità in primo luogo fisica, che accorcia gli spazi, che aumenta le possibilità di movimento. Velocità che rende più varia e più ricca l’esperienza della nostra vita. Si pensi alle riflessioni di Cavour sulle ferrovie inglesi: «in Inghilterra – scrive il futuro regista dell’unità italiana in una lettera del 1843 – non esistono più distanze. Le comunicazioni, anche tra città lontane, come Londra e Liverpool, sono diventate più facili che tra quartieri diversi della stessa città». In fondo, noi siamo ancora all’interno di quella dinamica: non sono molti anni che in Italia abbiamo i treni ad ‘alta velocità’. Quelli che Trenitalia chiama la ‘metropolitana d’Italia’ e che permettono di andare da Roma a Milano in tre ore. C’è qualcosa di affascinante e vitale in tutto ciò. Chiunque abiti a Roma può fare qualcosa a Firenze, a Bologna, e persino a Milano in giornata. Qualunque cosa: andare a trovare un amico o un parente, andare a visitare una mostra o ad assistere ad un concerto, andare a visitare la città per il puro piacere di visitarla – in un giorno solo. Tutto questo amplia i nostri contatti, le nostre esperienze, le nostre vite.

Ma, al tempo stesso, questa velocità si estende dallo spazio esterno a quello interno, dal mondo fisico a quello mentale, dal corpo allo spirito. La possibilità di fare molte esperienze diverse, di variare la nostra ‘dieta mentale’, tende a trasformarsi in appetito vorace, in bulimia. Tutto desta il nostro interesse; ma tutto si esaurisce (e deve esaurirsi) rapidamente. L’interesse decade a mera curiosità momentanea. Lo sguardo vaga inquieto su un mondo di occasioni tutto a portata di mano o di mouse o di touch, insofferente di ogni pausa. Una iperstimolazione continua riduce costantemente la durata dei singoli stimoli e li colloca in una successione vorticosa. Da un punto di vista morale e culturale, questa velocità può essere devastante: essa porta con sé una disattenzione di fondo, una tendenza a rimanere in superficie, un’attitudine non alla semplificazione ma alla banalizzazione, una corsa a ridurre qualsiasi argomento in pillole. Tutto dev’essere ridotto ai minimi termini, immediatamente comprensibile e digeribile; è come se dai cibi complessi, che abbisognano di tempo per essere preparati e tempo per essere digeriti, fossimo passati ad un’alimentazione da astronauti.

In termini culturali, tutto ciò significa un vivere esasperato nel presente, perdendo le connessioni con il passato e l’orizzonte del futuro, o riducendole a link da visionare in pochi minuti. Si perde soprattutto la profondità storica: ogni riflessione, ogni analisi parte da eventi recenti, come se le fibre dell’esperienza storica e politica fossero corte e non lunghe, come in effetti sono. Come se la complessa trama nella quale ci troviamo casualmente, a un punto dato, non avesse ordito. Come se la tela della storia, della vita e della politica fosse stata tessuta il giorno prima e fosse destinata a durare sino al giorno dopo. La nostra riflessione diventa effimera nel senso più pregnante della parola: come un quotidiano che, conformemente alla sua vocazione, il giorno dopo ci appare carta straccia.

Chi per mestiere studia e pensa lo vede molto bene nei libri: le monografie dei nostri maestri avevano alle spalle anni di lavoro e duravano decenni (a volte, un libro aveva ancora qualcosa da dire a cinquant’anni di distanza). Oggi le monografie non si leggono, si contano, si misurano: è nata la bibliometria, sicuro indice di qualità per i concorsi universitari. Capita che poco sopra i trent’anni uno studioso ne dichiari già tre o quattro: sono lavori fatti in fretta, con approssimazione e che dureranno poco. Dureranno l’espace d’un matin (o forse, quello d’un concours). Senza più orizzonti – chi più mai scriverebbe, come faceva Gramsci, für ewig, cioè per l’eternità? – ci ripieghiamo su un presente senza spessore, in una furia di bruciarlo che rivela una disperazione di fondo. Se nulla ci lega profondamente al passato, se nulla ci proietta in un futuro che ci oltrepassa – se ci siamo noi, con i nostri desideri individuali, in una corsa in cui a un desiderio soddisfatto ne subentra subito un altro da soddisfare, come insegna Hobbes in una pagina che rappresenta «l’ateismo dello sconforto» – allora non ci resta che consumare il maggior numero di esperienze possibile nel breve tempo a disposizione su una terra che non ha più cielo.