di Giuseppe Romeo
Le strade per affermare politiche di potenza attraverso l’uso della forza in questo primo decennio del nuovo secolo si sono man mano diradate per diversi motivi. Il primo, sicuramente rappresentato dal fatto che una politica egemonica richiedendo capacità politiche ed economiche di imporre modelli che siano in competizione tra di loro – dove un modello prevale per disponibilità di risorse, di conoscenze tecnologiche, di contenuti ideologici sulle proposte altrui – deve fare i conti sempre di più con un mondo mutato nelle sue dinamiche. Un mondo dove i confini si sono accorciati e i modelli di governo, seppur nella diversità nazionale, si presentano nella loro validità e durata sempre più relativi, in funzione di un senso comune di legittimità internazionale e di un consenso alle politiche adottate che si conquista su piazze non sempre e non solo esclusivamente nazionali. Il secondo, rappresentato dai costi delle operazioni militari e paramilitari in genere espressioni, sia le une che le altre, di disegni di potenza che si misurano però sulla sostenibilità materiale delle operazioni condotte. Di fronte a simili, semplici, considerazioni in un mondo globalizzato nei processi decisionali, politici ma soprattutto economici, non rimarrebbe che una strada possibile per concretizzare una politica di potenza: quella di imporre la propria egemonia assicurandosi il controllo delle economie produttive con l’acquisizione di posizioni finanziariamente consolidate al loro interno o partecipando, ovviamente da creditori, alla governance del proprio avversario attraverso l’acquisto di buona parte dei titoli di debito emessi o disporre di buona parte del circolante dello Stato di riferimento.
In uno scenario così chiaro e chiarificato dalle modalità attraverso le quali sono maturate le recenti crisi finanziarie, il Fondo Sovrano diventa l’espressione più immediata che può accomunare in sé obiettivi politici ed economici di uno Stato che godendo di un buon surplus fiscale intende perseguire obiettivi di leadership economica e politica su un altro Stato. Controllato direttamente da un governo, il Fondo Sovrano, dopo aver creato i prodotti che lo costituiranno ed investito acquisendo partecipazioni azionarie o acquistando titoli di debito sovrano altrui, diventa uno strumento efficace per comprimere aspetti della sovranità del concorrente. Una compressione e un condizionamento della volontà dello Stato debitore che si può ottenere senza alcun ricorso all’uso di una forza fisica – militare o meno che fosse, troppo costosa e a debito di consenso – ma semplicemente con l’introdursi nei meccanismi interni di governo di un’economia nazionale diventando, così, parte e interlocutore di ogni scelta fatta dal governo. Strutturato ed utilizzato per investire in strumenti finanziari, azioni, obbligazioni, titoli o immobili, il Fondo Sovrano si presenta come uno strumento efficace per affermare un potere economico che è anche capacità di azione politica dal momento che attraverso di esso si partecipa al controllo dell’economia del concorrente. Una scelta interessante di un prodotto collaudato piuttosto che nelle esperienze occidentali nelle più aggressive economie emergenti del Sud-Est asiatico per poi diventare l’arma più efficace per i Paesi esportatori di petrolio che hanno investito i loro surplus fiscali proprio nell’acquisire il controllo dei migliori asset societari occidentali. Una scelta che ha disarmato l’Occidente e ricollocato, ad esempio, Cina e Russia in un modello di new management finanziario rivolto a conoscere, partecipare e, quindi, controllare le economie dei possibili concorrenti.
Dall’Arabia Saudita alla Cina gli esempi sarebbero molti e molto interessanti. Dal momento che molte deboli economie societarie occidentali, affondate da una finanza che ha operato e speculato sulle piazze internazionali, al pari delle disponibilità di titoli di Stato già presenti e immessi sul mercato il rischio è che le economie di un Occidente miope, ad orizzonti limitati, privatosi di una liquidità prosciugata da una indiscriminata e gonfiata speculazione su titoli finanziari senza valore, quanto sui titoli di debito, possa diventare presto preda di Fondi Sovrani economicamente ben strutturati e politicamente ben diretti. Se pensassimo alla sola Cina sarebbe sufficiente ricordare, tra altri esempi possibili, non solo il controllo che Pechino esercita sul terzo della liquidità statunitense e sul debito, ma il fatto che, ad esempio, il China Investment Group con un capitale di 200 miliardi di $ ha acquisito il 10% del capitale del più accreditato gestore di private equity che è Balckstone Group e investito ulteriori 5 miliardi di $ in Morgan Stanley, società che si definisce nel suo portale web “Global financial services firm and a market leader in securities, asset management and credit services”. In un modello occidentale che ha fatto del liberismo e delle liberalizzazione il credo di un’economia di mercato non governata, di fronte alla stessa Unione Europea che attraverso la Commissione si era preoccupata di far evitare limiti od ostacoli ai Fondi Sovrani – senza rendersi conto che nel nostro sistema anche i servizi strategici come telecomunicazioni e energia sono stati liberalizzati e quindi quotati sui mercati ed aperti ad investitori non necessariamente dello spazio UE – la partita per il controllo economico delle società, dei flussi e delle valute e attraverso ciò degli Stati può trasformarsi in una bolla geopolitica. Una “bolla” giocata sui mercati e su chi nei mercati riesce a decidere il rating “politico” di uno Stato deprezzandone le capacità di azione politica, quindi di governo, e mettendone in discussione la stessa sovranità per poter poi aggredire ciò che resta dell’economia nazionale. E’ evidente, in effetti, che la possibilità per uno Stato-gestore di poter partecipare alla governance nazionale quale partner interessato a politiche di risanamento economico fa si che gli Stati debitori siano costretti a presentare garanzie di solvibilità assumendosi gli oneri di debitore.
D’altra parte, le vicende economiche di questi ultimi mesi hanno dimostrato, proprio nella proliferazione di Fondi Sovrani, quanto non ci siano barriere geopolitiche che si possano innalzare ad un modello economico, quello postcapitalista, che pur superando l’utopia collettivista, ha barattato la ragionevolezza del capitalismo sociale in nome di un mercato denazionalizzato e deregolamentato nel quale celebrare gli egoismi della finanza senza bandiera. Il vero dilemma del nostro quotidiano, che si nasconde nelle nebbie di una crisi, è dato dall’interrogarci sulla possibilità che si presentino scenari da politiche di potenza il cui teatro, d’ora in poi, si sposta dal campo di battaglia ai mercati e dai mercati al controllo del nostro quotidiano. Cina e Russia, in questo senso, si sono man mano riorientate a consolidare la loro dimensione regionale e a porsi come forze economiche, prim’ancora che militari, capaci di influenzare le economie dei possibili avversari. Se la Russia ha puntato negli ultimi anni al rafforzamento del rublo, ridisegnando la propria economia con un rimodellamento dei settori industriali e la riorganizzazione delle aziende di Stato nei settori energetici, la Cina si è preoccupata di far crescere la propria capacità produttiva e allargare, per quanto possibile, il mercato interno disponendo non solo di una numerosa manodopera ma anche di un know how d’importazione occidentale. Di fronte a ciò il “consiglio” interessato di Pechino dato a Washington, circa l’urgenza di prendere atto della necessità di dare corpo a riforme strutturali del proprio modello economico-finanziario e del debito, non solo risponde alla necessità cinese di farsi garantire le proprie disponibilità, e i relativi rendimenti, in titoli e liquidità americane così come la solvibilità degli Stati Uniti circa la “copertura” dei titoli di debito, ma alla possibilità di mettere nel cassetto i termini di potenza necessari per imporre, se necessario, condizioni alla …“potenza” americana.