di Claudia Orlandini

Le conseguenze dei cambiamenti climatici hanno posto nuove sfide alla comunità internazionale. Oltre alla ricerca di nuove soluzioni in termini di governance, anche la tutela dei diritti umani è al centro di un ampio dibattito. Vi è un punto in comune tra gli abitanti del pianeta, sebbene essi vivano in aree geografiche lontane e diverse: potrebbero diventare, ed alcuni già lo sono, rifugiati ambientali. Coniato nel 1985 dallo studioso egiziano El-Hinnawi, negli anni recenti il termine rifugiato ambientale ha assunto una posizione sempre più rilevante in ambito di diritto internazionale. Rifugiato ambientale è la persona costretta a lasciare il proprio territorio a causa dell’impatto di fenomeni ambientali che ne pregiudicano la sopravvivenza. È l’isolano del Pacifico che vede la propria terra sommersa dal mare, è l’africano che deve spostarsi a causa della desertificazione, è l’Inuit che deve far fronte allo scioglimento dei ghiacciai. Sono tutti coloro costretti a fuggire per cercare condizioni ambientali vivibili.

Sin dall’apparizione di tale concetto, il relativo status giuridico è stato oggetto di polemiche. Oggi il “rifugiato”, secondo i criteri definiti dalla Convenzione di Ginevra del 1951, è un individuo soggetto a persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o opinioni politiche. In tal senso i rifugiati ambientali risultano esclusi dalla suddetta definizione: per alcuni, i negazionisti in primis, la causa ambientale non è paragonabile ad una persecuzione religiosa o ad una guerra civile. Le vittime dei cambiamenti climatici, non essendo soggette a violenza od oppressione, non sono degne di beneficiare della tutela che deriva dallo status di rifugiato. Sono quindi una categoria di migranti forzati non riconosciuti dal diritto internazionale, privi di assistenza in quanto le organizzazioni internazionali non hanno a disposizione un mandato per la loro protezione. Modificare la Convenzione di Ginevra, come fu fatto con il Protocollo del 1967 che abolì le limitazioni temporali e geografiche nel conferimento dello status di rifugiato, o redigere un nuovo testo ad hoc, potrebbe aprire le porte a questa nuova categoria e fornire risposte adeguate al panorama politico-sociale odierno. Ciò dovrebbe essere il frutto del lavoro dei legislatori internazionali, in modo da creare un quadro giuridico robusto ricordando che, in virtù della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, in particolare dell’art.3, ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza. Una Convenzione flessibile ed al passo con i tempi sarebbe un modello valido sia in vista dell’adattamento dei testi giuridici esistenti che per la creazione di nuovi strumenti ad uso dei governi. Questi ultimi dovranno far fronte a flussi migratori che, secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, potrebbero coinvolgere 400 milioni di persone. Tali spostamenti avranno un forte impatto sulla distribuzione spaziale della popolazione, con le relative implicazioni politiche, economiche e sociali.

La rigidità attuale della definizione di “rifugiato”, che a primo impatto necessiterebbe solo di una maggiore attenzione e volontà politica per colmare il vuoto istituzionale nella sua declinazione “ambientale”, è probabilmente legata ad una motivazione economica: la paura degli Stati e delle organizzazioni internazionali di dover investire cospicue risorse finanziarie per proteggere una nuova e numerosa categoria. Questo riconoscimento implicherebbe un’impennata dei costi volti alla protezione, all’assistenza e al reinsediamento. Tuttavia non si può pensare di chiudere gli occhi su un’emergenza che è già in atto. Nell’isola di Kutubdia, in Bangladesh, negli ultimi 30 anni l’innalzamento del livello del mare ha portato alla sparizione di due terzi dell’area e all’emigrazione di migliaia di persone in aree urbane, con conseguente espansione delle baraccopoli. Non si tratta di conferire lo status di rifugiato a tutti coloro che, a causa dell’assenza di pioggia per un periodo protratto, si considerano vittime della siccità. È necessario definire dei criteri precisi attraverso i quali stabilire chi può essere considerato rifugiato ambientale. In questo, l’Italia potrebbe essere una delle principali promotrici. Data la sua posizione geografica, è storicamente una zona di transito ed accoglienza, e ciò è stato nuovamente accertato a seguito della cosiddetta “Primavera Araba”, con lo sbarco di più di 50.000 migranti (fonte: ACNUR). Se pensiamo all’aggravamento delle condizioni ambientali nel Maghreb e nell’Africa Subsahariana, in particolar modo con l’avanzamento dei deserti, sono prevedibili nuovi esodi che si aggiungerebbero ai migranti economici. Se i Paesi più sviluppati dispongono di strumenti tecnici per mitigare, in parte, le conseguenze nefaste, appare chiaro che le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo sono molto più vulnerabili. La loro sussistenza, basata prevalentemente sull’agricoltura, l’allevamento e la pesca, è profondamente dipendente dal clima.

L’Italia, in quanto Paese del Mediterraneo e crocevia di migranti di numerose nazionalità, dovrebbe essere in prima linea nella difesa dei diritti dei rifugiati ambientali, e questo a beneficio di tutti poiché  nemmeno il cittadino di New York, Amsterdam o Venezia, sebbene possa far affidamento su infrastrutture create per la protezione delle coste, è immune dagli sconvolgimenti naturali. Questi ultimi spesso ricorrono nell’immaginario collettivo proiettato nei numerosi film catastrofici, dove solo l’uomo più forte e la donna più bella della megalopoli, dopo mille peripezie, riescono a sfuggire alla forza distruttrice della natura, mentre anonime masse vengono sterminate.

Gli Stati possono proteggere da uno dei peggiori incubi i rifugiati ambientali, fornendogli un luogo sicuro dove trovare riparo, almeno fino al placarsi della tempesta.