di Giuliano Gioberti
Ancora non abbiamo capito se per noi italiani l’Europa – che tutti ormai invocano come arbitro supremo e come istanza politica ultima – sia un pretesto, un’occasione o un alibi. Proviamo a spiegarci.
Con l’ormai famosa lettera del 5 agosto, sottoscritta da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet, all’Italia sono state chieste (diciamo meglio, suggerite) tutta una serie di misure considerate necessarie per rilanciare lo sviluppo economico e per contribuire, in prospettiva, alla riduzione del colossale debito pubblico che grava sul nostro Paese. Per inciso, in quella lettera, della quale ognuno ricorda ciò che gli fa comodo, si proponeva – tra le altre cose – la riduzione degli stipendi agli statali. Non solo dunque la riforma del mercato del lavoro, le privatizzazione e le liberalizzazioni, la revisione del sistema previdenziale, la riduzione dei costi della politica (a partire dalle Province), la lotta all’evasione fiscale, ma anche una bella sforbiciata alle buste paga dei dipendenti pubblici.
Il governo Berlusconi per oltre due mesi ha fatto orecchie da mercanti rispetto a queste indicazioni. Alla fine, messo alle strette, ha dovuto presentare agli altri partner europei un elenco di interventi, da adottare nei prossimi mesi, che in gran parte recepiscono, in alcuni casi persino alla lettera, i contenuti della missiva.
Tutti coloro che sostenevano, sino al giorno prima, che bisognava dare retta all’Europa se si voleva evitare il tracollo, non appena l’esecutivo – magari obtorto collo – si è deciso a fare propri i consigli delle due massime autorità finanziarie europee (quella entrante e quella uscente) si sono scatenati, denunciando il rischio della “macelleria sociale” e dicendo che si tratta di proposte sbagliate, anche se richieste dalla Bce. Per tutta risposta, Berlusconi e i suoi ministri – diffidenti dell’Europa sino al giorno prima, dalla quale si sentivano messi sul banco degli imputati – hanno cominciato a dire che se l’opposizione non collaborerà in Parlamento per l’approvazione delle diverse misure dimostrerà, così facendo, di essere lei sì anti-europea e sorda al richiamo che ci viene dai nostri alleati continentali.
L’unità europea, come molti sostengono con toni sempre più autocritici, è nata male e si sta sviluppando peggio. Forse è stato un errore allargarne i confini sino a comprendere ventisette Paesi, tanto diversi per capacità produttive, struttura sociale e interessi. Sicuramente è stato uno sbaglio ammettere nel club la Grecia, la cui economia si sapeva essere gracile e basata su conti pubblici fasulli. Probabilmente lo stesso euro è stato gestito male. Si sono inseriti troppi vincoli formali nei rapporti tra Stati e nelle loro attività interne, soprattutto in materia economica. Ci si è illusi che potesse prevalere uno spirito di eguaglianza quando invece è chiaro che le dinamiche di potenza continuano ad avere un ruolo e che gli Stati nazionali non possono essere del tutto spogliati delle loro prerogative.
Insomma, tutto quello che volete. Fatto sta che l’unità europea esiste e bisogna prenderne atto. Il problema è come ci si rapporta nei suoi confronti. E qui veniamo all’Italia e all’atteggiamento sovente schizofrenico e autolesionistico dei suoi gruppi dirigenti. I quali danno l’impressione di utilizzare il richiamo all’Europa e ai suoi valori comuni in modo soltanto retorico e strumentale, e sempre sulla base delle convenienze del momento, sempre nella prospettiva delle lotte di potere interne all’Italia.
I partner europei si debbono essere accorti di questo nostro atteggiamento e questo forse spiega la diffidenza crescente che nutrono nei nostri confronti e il discredito che sembra circondarci. Tanto più grave se si considera che siamo stati tra i padri fondatori dell’Europa. Ma evidentemente nel frattempo abbiamo smesso di crederci. E non credendoci più la chiamiamo in ballo ormai soltanto come una slogan propagandistico da sbattere in faccia ai nostri avversari del momento.
Che è esattamente quel che è accaduto in queste settimane e nelle ultime ore. Intendiamoci, l’ingerenza delle burocrazie tecniche continentali nella vita politica e nelle decisioni economiche dei singoli Stati sta divenendo un problema; che trova però la sua giustificazione nella difficoltà che hanno le classi politiche delle singole democrazie – quella italiana su tutte – a prendere decisioni che potrebbero rivelarsi penalizzanti dal punto di vista elettorale e del consenso. C’è dunque un problema di legittimazione democratica che si sta facendo molto serio e che pone numerosi interrogativi dal punto di vista costituzionale.
Ma queste difficoltà e questi problemi sono accresciuti, nel particolare caso italiano, dall’atteggiamento scostante – al limite irresponsabile – di tutte le forze politiche, che diventano fanatiche dell’europeismo o critiche del medesimo sentimento in funzione delle circostanze. L’Europa non dovrebbe intromettersi più di tanto nei nostri affari, ma al tempo stesso è all’Europa che ci rivolgiamo quando si tratta di togliere le castagne dal fuoco. Vorremmo contare di più in Europa, ma al tempo stesso nei suoi confronti ci comportiamo con un misto di indifferenza e superficialità, senza renderci conto – ad esempio – che in quel consesso ci sono regole, costumanze, atteggiamenti e procedure (anche informali) che non possono essere derogate solo perché ci riteniamo, rispetto agli altri alleati, particolarmente furbi o spiritosi. Diciamo di volere un’Europa per davvero forte e intanto mandiamo a Bruxelles gli scarti della nostra classe politica.
Insomma, non si può essere europeisti e antieuropeisti al tempo stesso, o europeisti a intermittenza e secondo le circostanze, o europeisti all’acqua di rosa, come se quel club che abbiamo contribuito a fondare non ci interessasse o non ci convenisse più. Non la si può considerare ora un vincolo che ci costringe ad essere virtuosi ora una gabbia che ci condanna, peraltro, all’eterno ruolo di sorvegliati speciali.
Se l’Europa bacchetta Berlusconi, la sinistra l’addita come un esempio di virtù. Se dà credito al Cavaliere, solo perché il Cavaliere ha dato retta all’Europa, allora quest’ultima diventa sospetta e poco seria agli occhi di quella stessa sinistra. Diciamo che l’Europa è un’opportunità e finiamo per trattarla come un alibi per le nostre debolezze e un pretesto per fare polemiche da cortile.
Stando così le cose è un miracolo che in Europa, tutte le volte che si nomina l’Italia, non scoppi una fragorosa risata collettiva.