di Alessandro Campi

La storia si ripete. Magari in forma di farsa o commedia, come spiegano tutti quelli che non hanno letto Karl Marx, ma si ripete. Specie quando sul passato – antico e recente poco importa – si è steso un velo di colpevole oblio. E’ il caso della stagione cosiddetta degli “anni di piombo”, che accompagna gli italiani come un fantasma: più lo si esorcizza, più ricompare a guastare i loro sogni.

L’Italia – al di là dei racconti edificanti, al di là delle dimenticanze strumentali con cui la sua storia viene sovente narrata – è un Paese incline alla violenza, settario e barricadiero, capace di coltivare nelle sue viscere odii e inimicizie mortali. La nervatura morale che il cattolicesimo ha dato alla nostra cultura non ci ha risparmiato sbocchi di sangue e tragedie, individuali e collettive. Come appunto quelle vissute nel corso degli anni Settanta, in un crescendo di fanatismo e cattiva coscienza che dagli scontri di piazza tra opposte fazioni portò dritto al terrorismo, con lo Stato nelle vesti ora di osservatore passivo ora di colpevole attore in gioco.

Quelle vicende – si sostiene – difficilmente potrebbero ripetersi perché nel frattempo è cambiato il mondo. E’ finita la “guerra fredda”, all’ombra della quale si scontrarono, tutt’altro che metaforicamente, atlantisti fautori del binomio “legge e ordine” e rivoluzionari che per davvero sognavano il “mondo nuovo”. Sono altresì implose le ideologie concorrenti – fascista e comunista – che armarono in quegli anni la mano di molti giovani. Si è nel frattempo creata una coscienza civile diffusa che rende impossibile immaginare un ordine politico diverso da quello democratico e che bandisce, almeno a parole, le soluzioni di forza.

Tutto vero. Resta il fatto che non appena l’antagonismo sociale supera la soglia di sicurezza, non appena lo scontro politico sale di tono, nella discussione pubblica torna lo spettro di quella che a sua tempo fu percepita (e finanche vissuta) alla stregua di una vera e propria “guerra civile”, magari a bassa intensità o soltanto simulata nelle forme, ma pur sempre ricalcata sul modello delle lotte intestine che gli italiani avevano già sperimentato nel corso della loro storia unitaria.

Viene dunque da interrogarsi sul perché di certe ricorrenze, e soprattutto sulla plausibilità di certi accostamenti, che si vorrebbero evitare ma che puntualmente si ripropongono. E’ accaduto anche dopo i fatti di Roma delle scorse settimane. E’ accaduto con le dichiarazioni (improvvide, a giudizio di molti) del ministro Sacconi, che ha detto di temere – non per sé, ma per i suoi collaboratori – ritorsioni di stampo terroristico motivate dalle aspre discussioni di questi giorni sulla riforma del mercato del lavoro.

Vi dunque spontaneo chiedersi se si stanno dunque aprendo nuovi scenari conflittuali, che nulla hanno a che vedere con gli anni Settanta e che dunque non giustificano certe evocazioni, o se siamo piuttosto in presenza del passato che ritorna e ci presenta il conto, di un male che evidentemente non siamo riusciti a sconfiggere?

La risposta a simili domande non è facile. Anche perché – ecco il punto – su cosa sia stata la violenza politica negli anni Settanta e Ottanta, su quali siano state le ragioni – politiche, sociali, idelogiche – che l’hanno determinata, non esistono ancora spiegazioni esaustive e convincenti. Un pezzo d’Italia, una volta che si è usciti da quella spirale, ha preferito dimenticare e si è lasciata alle spalle il ricordo dei morti ammazzati, rubricando quel periodo alla stregua di una parentesi infelice. Un altro pezzo si è invece abbandonato a ricostruzioni e interpretazioni che hanno oscillato, per dirla all’ingrosso, tra la memorialistica di parte (per definizione parziale e giustificatoria) e le fantasmagorie pseudo-storiografiche (per definizione inclini alla vaghezza di stampo complottista).

Da un lato, dunque, abbiamo avuto un diluvio di letteratura reducistica e di ricordi e riflessioni in chiave soggettiva, che ha visto come protagonisti ex-militanti dei diversi schieramenti in lotta, ex-terroristi d’ogni colore e statura, giudici all’epoca in prima linea nella lotta all’eversione e, naturalmente, i famigliari delle vittime. Dall’altro, una massa di studi e ricerche che hanno visto nella “strategia della tensione” il prodotto di una guerra che gli italiani hanno subito loro malgrado e la cui regia effettiva andrebbe ricercata nel gioco delle grandi potenze in lotta per l’egemonia mondiale e nelle manovre condotte in quegli anni, senza esclusioni di colpi, da servizi segreti, agenti doppi, massonerie di diversa osservanza e apparati deviati dei diversi Stati.

Il risultato di questo guazzabuglio – come si è visto anche in occasione delle polemiche sul “caso Battisti” – è che ancora oggi non riusciamo – gli intellettuali e gli studiosi, ma anche la classe polititca e i cittadini normale – a spiegare agli altri “cos’è stato per noi” quel periodo della storia italiana (come ha detto in più occasioni il Capo dello Stato) per la semplice ragione che noi stessi non siamo ancora riusciti a capirlo, dal momento che abbiamo rinunciato a fare i conti con la violenza politica, con il terrorismo e con la memoria degli anni di piombo nell’unica maniera che sarebbe auspicabile: mettendo da parte umori e rancori di parte, evitando i richiami pretestuosi e dettati dall’interesse del momento, e affidandoci alla serenità del lavoro storiografico.

Insomma, la storia si ripete, o rischia di ripetersi, non per una fatalità o uno scherzo del destino, ma in mancanza di un’adeguata comprensione delle sue dinamiche e delle sue ragioni essenziali. Per scrivere del fascismo in una chiave minimamente rigorosa e obiettiva a Renzo De Felice bastarono appena vent’anni dalla sua caduta. Trascorsi oltre trent’anni dalla fase più acuta della stagione terroristica continuiamo invece ad agitarne il fantasma in modo strumentale e irresponsabile. Siamo ancora qui ad accusarci reciprocamente di averlo favorito o sottovalutato, ad invocare leggi speciali contro la violenza politica, a cercare di addossare agli altri il peso di responsabilità che sono state per intero nostre. Forse ci vorrà una generazione vergine, che di quegli anni non abbia avuto alcuna esperienza diretta e che di essa non serbi alcuna memoria, per liberarci di un peso che si è fatto ormai insopportabile e che continua a guastare la nostra convivenza. Inchiodati al passato come siamo, prigionieri di un presente che non riusciamo a governare e che sempre interpretiamo guardandoci alle spalle, quale futuro possiamo mai costruire?