di Luigi Cimmino*

A passeggio per una enorme spiaggia africana, senza il coraggio di mettere il piede in acqua per non essere portato via dalla corrente atlantica, ho notato sulla mia destra tre ragazze; molto giovani, a quanto capivo, sedute su un grande telo. Ridevano, scherzavano e due si tenevano la mano. Tutte e tre coperte e in gran parte nascoste da shador. All’improvviso, mentre le guardavo, hanno interrotto i loro discorsi passando al silenzio: si erano fissate su due donne che camminavano alla mia destra. Due signore, non più giovanissime e di “bella presenza”, che in bikini si divertivano a loro volta a sfidare, uscendo e rientrando di corsa, la spuma del mare.

Le tre ragazze non sembravano particolarmente offese, né tantomeno scandalizzate – a quanto capivo; ma quanto capivo? Fatto è che per qualche secondo hanno abbassato la testa, per poi ricominciare a parlare in un tono che sembrava dimesso, senza più accompagnare ai loro discorsi le risate argentine di prima. La visione delle due donne in bikini le aveva in qualche modo disturbate? Aveva turbato il loro pudore? Ovviamente non lo so. Ma poniamo di sì. Poniamo che la presenza di due donne, rispetto a loro, quasi nude, abbia toccato in qualche modo la loro, come dire, verecondia. Il pudore è sempre, particolarmente in ragazze giovani, quando c’è e se c’è, un sentimento da tutelare e proteggere come una reliquia. Da tener presente che la spiaggia cui mi riferisco appartiene ad una città turistica, frequentata soprattutto da occidentali che riversano nel paese benvenuta moneta sonante. I costumi occidentali sono quindi nel paese, nella città in cui mi trovavo in particolare, del tutto tollerati. Ciononostante suppongo ci sia stato imbarazzo. La domanda, certamente vaga, che mi sono posto era: se imbarazzo, o persino offesa, c’era stata, come rimediare “in linea di principio”? Come concepire un comportamento che conciliasse in questo caso i due stili di vita, così spesso al giorno d’oggi l’un contro l’altro armati?

A)  Un primo modo potrebbe essere quello di rispettare il costume locale anche in questioni che interferiscono con la propria libertà individuale. Lo potremmo chiamare “comunitario”. Le due donne occidentali si sarebbero dovute mettere un costume più acconcio al luogo, magari intero, o addirittura vestirsi per le passeggiate lungomare per poi godersi il sole nei rispettivi villaggi turistici, isolati come fortezze. Un atteggiamento del genere sarebbe certamente rispettoso del luogo in cui ci si trova e della sua cultura. Ma va certamente contro il senso in cui noi intendiamo i “diritti individuali”. Non solo e non tanto nel senso della personale libertà delle due donne, ma nell’accezione moralmente ben più problematica di accettare distinzioni di ruolo e di sesso che consideriamo errate. Dopotutto, a cominciare da me, gli uomini sulla spiaggia mostravano la loro pelle più di quanto le due signore mostrassero la loro. Accettare la marcata differenza fra ruoli significa accettare discriminazioni fra sessi che nessuno di noi (o almeno la maggior parte di noi) considera tollerabili, di cui la copertura del corpo è solo la punta di un iceberg. Qui non si tratta di mescolare allegramente la cultura della pizza e quella del cuscus. Fino a che punto si tratterebbe di rispetto culturale anziché d’indifferenza filistea per la libertà?

B) Altro modo, opposto al primo, potrebbe essere quello di manifestare ed esibire a piacere la propria autonomia. Convinti che al pudore offeso si debba rispondere, sinché la legge locale lo consente (o forse, coraggiosamente, anche quando non lo consente), con un comportamento in grado di insinuare progressivamente il germe della libertà. Dove, al solito, girare a pelle scoperta, è semplicemente il segno di una indipendenza ben più radicale. Lo potremmo chiamare comportamento “libertario”. Poiché «quando, invece di pensare agli esseri umani uno ad uno, si pensa ad essi tutti in una volta, si è solo aggiunta una parola al dizionario e non una nuova cosa all’universo» (udite udite: Ezra Pound!), le intenzioni davvero civili e morali sono sempre rivolte agli individui, non a enti astratti come le comunità. Il problema di un atteggiamento del genere è noto. Indipendentemente dalla sostanzialità o meno delle “comunità”, occorre chiedersi sino a che punto gli interventi sugli individui a prescindere dalle loro volontà liberano questi ultimi dal plagio, e sino a che punto invece violano la loro autonomia. Esistono libertà (quale che sia il significato della maledetta parola) “pure” e “universali” che non si formano all’interno di una cultura? Il pudore delle ragazze, si suppone, è stato offeso. A quale diritto individuale mi appello per ritenere l’offesa una medicina alla lunga salutare?

C) Potremmo nominare una terza modalità e indicarla come genericamente “realista”. Secondo questa la conseguenza da evitare come la peste è sempre solo e soltanto quella del conflitto: nei popoli e fra i popoli. La minimizzazione dei conflitti violenti è il compito da realizzare. Nel caso citato ne conseguirebbe che, finché si ferisce il pudore, la libertà cui rinunciare sembra sproporzionata rispetto al danno procurato. Cosa ben diversa si raccomanda allorché un certo comportamento potrebbe generare reazioni violente. Nel luogo in cui mi trovavo, le due signore potevano quindi tranquillamente godersi il sole. Una posizione del genere corre il rischio di sommare, almeno moralmente, i difetti delle precedenti. Pone una certa violenza, quella di tipo bellico, al di sopra di ogni violenza: istituzionale, religiosa, psichica. Decide, forse anche qui in modo filisteo, che la peggiore offesa è quella in cui ne va della (mia?) sicurezza. Che vale la pena vivere per continuare a vivere.

Un lettore che aprisse a caso l’Etica Nicomachea, la maggiore opera morale di Aristotele, rimarrebbe basito di fronte alla seguente indicazione (cito la sostanza): “agire giusto è quello che deve essere compiuto nelle circostanze adatte, nei luoghi adatti, nel tempi adatti”. Aristotele non sta prendendo in giro il suo lettore. Per lui è la realtà stessa a dire, ad indicare al saggio, cosa fare. E la realtà può dare indicazioni diverse in tempi e luoghi differenti. Lasciamo perdere in base a quali ragioni Aristotele riesce a giustificare in un unico colpo l’oggettività e la particolarità dell’agire morale, che per lui coincide con quello politico. Noi, purtroppo, a questa capacità di consultare le cose stesse non crediamo più. Noi abbiamo bisogno di “principi generali”, di leggi che indichino il da farsi. Il fatto è che in molti casi i principi, anche quando li abbiamo, si scontrano con le fattispecie. Lasciano dubbi e incertezze e disagi interiori. Ciononostante dobbiamo decidere. Il caso citato è banale e meno problematico di come l’ho presentato. Ma di situazioni incresciose se ne danno a iosa. Forse in casi del genere deve soccorrere collaborazione e saggezza politica. L’aiuto degli altri a discutere la situazione nei particolari, con la sincera intenzione di fare il meglio, e la capacità che una volta veniva riconosciuta ai vecchi saggi, grazie all’accumulo di esperienze, di individuare il meglio senza semplicemente dedurlo da un principio. Cose da anziani, cose d’altri tempi.

 

* Presidente dell’Istituto di Politica