di Francesco Coppola
Governo di larghe intese, di unità o salvezza nazionale, di legislatura, di tecnici, di emergenza, di grande coalizione, di salute pubblica, e via elencando.
Sino ad oggi abbiamo utilizzato queste formule in modo equivalente, come se si trattasse sempre della stessa cosa. Ma per capire se il neo senatore Mario Monti avrà una qualche possibilità di dare vita ad un nuovo esecutivo, in grado di risollevare l’Italia dalla crisi finanziaria e d’immagine nella quale versa, forse è il caso di fare un po’ di chiarezza.
Cosa vogliamo esattamente? Cosa serve al Paese? Quale tipo di governo potrà trovare il sostegno parlamentare necessario a farlo vivere?
La mia idea è che un governo di larghe intese o di grande coalizione – basato su un accordo politico-programmatico tra le principali forze politiche, a partire ovviamente dal Popolo della libertà e dal Partito democratico, sia da escludere. E lo stesso vale per formule quali il governo di unità o di salvezza nazionale o il governo di salute pubblica, che a loro volta richiederebbero un’intesa politica, una condivisione di valori e obiettivi, tra i maggiori partiti che al momento risulta semplicemente impossibile.
In tutti questi anni, il Pdl e il Pd (lasciamo stare per colpa di chi) non si sono mai riconosciuti, l’un l’altro, come interlocutori: non hanno mai dialogato nelle sedi istituzionali, a partire dal Parlamento, e mai hanno provato a condividere un progetto o una iniziativa. Si sono accusati reciprocamente delle peggiori nefandezze: i democratici hanno accusato Berlusconi di portare la nazione alla rovina e di occuparsi solo dei suoi affari privati, Berlusconi ha accusato i democratici di essere al servizio ora della magistratura politicizzata ora di interessi stranieri.
Date queste premesse – e senza considerare l’atteggiamento a sua volta sempre polemico e strumentale tenuto, all’interno delle due coalizioni, rispettivamente dalla Lega e dall’Italia dei valori – come si può immaginare che oggi i due principali partiti italiani trovino la forza e la voglia di collaborare e di unire le loro energie, foss’anche nell’interesse generale? Da questo punto di vista ha ragione Di Pietro: un governo Monti che comprendesse al suo interno politici designati dai due schieramenti o che dovesse basarsi sull’accordo programmatico tra i due maggiori partiti non durerebbe nemmeno una settimana. Non è solo un problema di differenze, che sarebbero troppo accentuate dal punto di vista delle idee e degli obiettivi per rendere possibile una qualunque intesa. E’ anche un problema di cultura politica e di stile: un bipolarismo basato sull’insulto e sulla costante delegittimazione dell’avversario, come è stato quello italiano in questi anni, non rende possibile alcuna convergenza, nemmeno momentanea.
Se dunque si vuole rendere fattibile o minimamente plausibile l’esperimento che Monti tenterà nei prossimi giorni bisogna perseguire un’altra strada: quella di un governo tecnico di emergenza, al quale i partiti – quelli che vorranno starci, per senso di responsabilità e per dovere istituzionale – si limiteranno ad offrire una base numerico-parlamentare senza rivestire al suo interno alcun ruolo. Un governo basato su un programma minimale, essenzialmente di tipo economico, e che abbia una durata temporale se non prefissata (la vita di un tale governo dipende infatti da quanto sarà necessario per rimettere in sesto l’Italia) comunque breve (al massimo, ovviamente, il termine naturale della legislatura).
Come si è visto in queste ore, tutti i partiti hanno ragioni di interesse che – al di là delle parole altisonanti che usano – li spingono in una direzione contraria a quella di un governo che di fatto ci è stato imposto dall’esterno e che, per dirla tutta, rappresenta il segnale del colossale fallimento della nostra classe politica d’ogni colore e una vistosa anomalia rispetto al normale funzionamento di una democrazia: basata, per definizione, sulla volontà popolare.
Se non fossimo arrivati, per insipienza, ad una sorta di punto di non ritorno, il ricorso al voto anticipato (e dunque la nascita di un nuovo governo politico scelto dai cittadini e dai loro rappresentanti) sarebbe stato lo sbocco migliore e più lineare alla crisi che ha prodotto l’implosione della maggioranza di centrodestra. Ma visto che siamo in emergenza non si può che rispondere con una soluzione d’emergenza. Il che appunto significa il varo di un governo che sarà costretto a prendere provvedimenti dolorosi e fatalmente impopolari, che nessuna forza politica avrebbe, da sola, la forza o il coraggio politico di varare. Significa, altresì, doversi affidare ad un esecutivo all’interno del quale, nella scelta dei singoli ministri, non possono riflettersi le tensioni e i fragili equilibri che attualmente stanno dilaniando tutte le singole forze politiche: non è un caso che, dopo aver pensato ad una sorta di governo misto, che comprendesse accanto a tecnici di provata esperienza anche personalità politiche appartenenti ai diversi schieramenti, ci si stia ora orientando verso un esecutivo totalmente non politico, interamente tecnico e dal profilo meramente istituzionale.
Un governo, potremmo definirlo, di tipo commissariale, una sorta di reggenza (come tale per definizione provvisoria) alla quale si chiederà, in cambio di un sostegno parlamentare tanto necessario dal punto di vista formale quanto a questo punto politicamente obbligato, di fare tutto ciò che serve per evitare il fallimento del Paese e per ristabilire quella condizione di minima normalità sociale e politica indispensabile per andare alle elezioni, fra sei mesi o forse fra un anno.
C’è chi dice che, in realtà, non esistono governi tecnici e che ogni governo è, per definizione, politico. Senza entrare nel merito di questa discussione, mi limito a porre un altro problema: cosa accade nell’orientamento dell’opinione pubblica quando un governo cosiddetto tecnico, nato da una procedura tutta interna al mondo istituzionale, dimostra di funzionare più di uno cosiddetto politico, scaturito dal voto popolare? Il rischio, infatti, è che un esecutivo sorto per durare pochi mesi in condizioni d’emergenza potrebbe poi trasformarsi, se davvero si dimostrasse efficace e serio, in un esperimento politico che gli stessi cittadini avrebbero interesse a perpetuare.
Se Monti – il burocrate Monti – si dimostrasse un governante migliore e più preparato di coloro che lo hanno preceduto in questi per quale ragione, quando si andrà al voto, non dovrebbe essere lui il candidato alla guida del Paese, il candidato Premier di un partito che ancora non esiste ma che nei prossimi mesi potrebbe materializzarsi sulle rovine di una Seconda Repubblica nata male e finita peggio?