di Saro Freni*

In questi giorni, è stato più volte riproposto il famosissimo video della discesa in campo. Era il 1994. Berlusconi si presentava come l’alternativa pragmatica ed efficientista ad un ceto politico in disarmo, screditato dalle inchieste di Tangentopoli e accusato delle peggiori nefandezze: corruzione, affarismo, incompetenza.

I “politici senza mestiere”, diceva il Cavaliere, ci avevano condotto ad un pesante debito pubblico, mortificando le migliori energie della nazione con la loro inadeguatezza e con la loro voracità. Il pentapartito e l’opposizione comunista o post-comunista erano messi nello stesso sacco. Il primo aveva inguaiato l’Italia con politiche clientelari inquinate dal sistema tangentizio, la seconda non prometteva di far meglio, legata com’era, nelle parole del Cavaliere, a “ideologie economicamente e politicamente fallimentari”.

Voleva essere la rivincita della società civile contro il professionismo politico, la lotta dei ceti produttivi contro la partitocrazia, la rinuncia esplicita ed orgogliosa alle ideologie e alle mediazioni.

Molta acqua è passata sotto i ponti, e non tutta limpidissima. La promessa rivoluzione liberale è finita alle ortiche, la battaglia contro la vecchia politica si è stemperata in un compromesso al ribasso fatto di patti non sempre nobili con l’esistente, ispirati e condotti da un vecchio Mazzarino democristiano come Gianni Letta. Il berlusconismo si è rivelato una specie di quieto vivere meschino, tutto immerso nelle beghe personali del padrone, impegnato in una guerra continua contro i mulini a vento, che una volta si chiamavano Follini, un’altra Casini, un’altra Fini, e poi Tremonti, la Lega, i comunisti, i giornali, i giudici e ora l’alta finanza. Un tirare a campare, che è sì meglio rispetto a tirare le cuoia, andreottianamente parlando; ma ora che si sono tirate pure le cuoia, da un punto di vista politico, che cosa resta? Resta questo, appunto: un andreottismo di risulta, furbastro ma non intelligente. Un andreottismo, in definitiva, senza Machiavelli.

E finisce così, il berlusconismo, tra il maramaldeggiare dei caroselli in stile Mundial e l’ultima battaglia armi in pugno dei fedelissimi Ferrara & C., nel ridotto della loro Valtellina, a invocare le elezioni come lavacro supremo, come scontro finale, contro i carri armati dello spread e il complotto dei poteri forti.

Non so se sia una fine epica o ingloriosa. Certamente è meno spettacolare di quanto si attendesse. Non si è riprodotto il finale del Caimano. Il berlusconismo si è sfarinato così, senza squilli di tromba, tra le recriminazioni malmostose dei Farinacci alla buona, gli ultrà ex An, fedeli nei secoli al loro personale tornaconto.

In tutto questo bailamme, è utile notare un paradosso. I pochi ma agguerriti berlusconiani di ferro che si battono contro il golpe bocconiano, invocano argomenti di retroguardia che vanno analizzati con attenzione. Non sbagliati in sé, beninteso, ma certamente contraddittori, se pronunciati da certe bocche. Uno di questi, il più discutibile, riguarda la presunta forzatura istituzionale del Presidente della Repubblica. Io direi che, a norma di Costituzione, la forzatura è stata operata per decenni dalla partitocrazia, che ha preteso di usurpare una prerogativa del Capo dello Stato, attraverso il ricatto dei partiti, i veti incrociati e le alchimie truffaldine che ci hanno portato all’indebitamento e alla stagnazione.

L’altro argomento, parimenti risibile, mi sembra che riguardi il ruolo dei politici di professione. Ora, in attesa del pericoloso pronunciamento degli ottimati, si rivaluta la figura dei professionisti della politica come se fossero l’ultimo baluardo della sovranità nazionale, e non piuttosto coloro che stavano per gettarci allegramente nel baratro. I sostenitori di quel Berlusconi che era sceso in campo contro i politici senza mestiere, ora li accreditano come gli unici e soli salvatori della Patria.

* Direttore dell a Scuola di Liberalismo di Roma