di Alessandro Campi*
E’ successo tutto così in fretta, in un tale clima di convulsione ed emergenza, tra pressioni internazionali al limite dell’ingerenza diplomatica e logoranti trattative nei palazzi del potere romano, che riesce difficile ragionare con la dovuta calma su quanto accaduto in questi giorni nella politica italiana e su ciò che ci aspetta nei prossimi mesi.
L’unica certezza è che Berlusconi ha dovuto arrendersi ai mercati, senza passare da un voto di sfiducia, e che il suo posto, per volontà dl Capo dello Stato, divenuto l’arbitro e il garante solitario della crisi che ha fatto drammaticamente saltare equilibri parlamentari e alleanze politiche, sarà preso da Mario Monti e da un governo composto essenzialmente da tecnici estranei ai partiti. Per in resto, abbiamo dinnanzi un futuro tutto da decifrare.
Su Monti, a conferma del marasma nel quale siamo finiti, si stanno appuntando aspettative addirittura salvifiche, che le settimane a venire potrebbero però smentire o raffreddare. La fiducia – come si è visto ieri durante le consultazioni al Quirinale – è stata obbligatoriamente accordata all’uomo e alle sue riconosciute capacità, non ad un programma che ancora non esiste e che non è detto debba limitarsi solo agli interventi di risanamento suggeriti con forza dall’Europa.
La crisi – per meglio dire, la cattiva gestione della crisi – è stata infatti anche il frutto del caos istituzionale che si è creato negli ultimi tre anni e che ha prodotto una vera e propria paralisi nella vita parlamentare e un crescente vuoto decisionale a livello di esecutivo. Tornare alla normalità, dunque, non significherà soltanto far quadrare i conti dello Stato o adottare provvedimenti draconiani in materia di finanza pubblica, ma ristabilire regole di convivenza politica e costumanze costituzionali diverse da quelle che hanno sin qui contraddistinto la vita di questa tormentata legislatura. Non è un caso che nei diversi colloqui avuti con gli esponenti dei partiti il Presidente Napolitano abbia ieri indicato come prioritario, accanto a quello del risanamento economico-finanziario, anche l’obiettivo delle riforme costituzionali. Per non dire dell’impossibilità di tornare al voto, quando sarà, con l’attuale legge elettorale, che dei nostri problemi politici è stata forse la principale responsabile.
Ma ampliare il raggio d’azione del nascente governo pone subito il problema della sua durata (pochi mesi o sino alla fine della legislatura?) e della sua capacità a garantirsi uno stabile sostegno parlamentare per tutte le misure che cercherà di adottare. Si può prevedere, considerato l’orientamento delle diverse forze in campo e a dispetto del clima di responsabile concordia che si respira in queste ore, che la sua vita sarà difficile e travagliata.
All’apparenza, solo la Lega ha fatto una scelta di netta contrarietà nei confronti del nascente “governo del Presidente”: non tanto, come si dice, per ragioni di opportunità elettorale, nella speranza cioè di lucrare sul malumore dei cittadini quando su di essi si abbatterà la scure del risanamento, ma nel segno della coerenza ideologica. Per quale ragione sostenere un esecutivo il cui obiettivo dichiarato è quello di “salvare l’Italia” dal momento che il Carroccio persegue da anni la disarticolazione dello Stato unitario a esclusivo benefico degli interessi del Nord?
Quanto agli altri partiti, se il Pd e il Terzo Polo hanno deciso di appoggiare senza remore la soluzione Monti come l’unica realisticamente percorribile, l’Italia dei Valori e in particolare il Pdl hanno posto non poche condizioni al loro sostegno: Di Pietro ha fretta di votare, per non finire travolto anch’egli dalla lunga agonia del berlusconismo, del quale in questi anni ha rappresentato il riflesso polemico e negativo; esattamente come il partito del Cavaliere, che per non dissolversi o subire ulteriori diaspore deve a tutti i costi dimostrarsi decisivo e condizionante in ogni singolo passaggio parlamentare e, soprattutto, deve impedire che gli eventuali successi del nuovo Presidente del Consiglio sul terreno economico si convertano, strada facendo, in un consenso politico e d’opinione nei confronti di quest’ultimo. Se Monti avrà successo e se riuscirà a terminare la legislatura come impedirgli di proporsi agli occhi degli italiani come il naturale candidato alla guida del Paese alle prossime elezioni? Al momento non ha un partito, ma un’alleanza disposta a sostenerlo come leader potrebbe facilmente formarsi al momento opportuno.
Ciò detto sulle difficoltà che l’aspettano, all’esperimento voluto dal Capo dello Stato, reso necessario e ineludibile dalla condizione comatosa nella quale abbiamo finito per trovarci, non si può che guardare con un misto di speranza e preoccupazione. La prima nasce dal desiderio che l’Italia, quanto prima possibile, scacci il fantasma del fallimento e ritrovi la sua perduta credibilità sulla scena internazionale. L’interesse nazionale – o quel che resta dell’amor di patria – spinge ad augurarsi che Monti e la sua squadra di inappuntabili professionisti possano riuscire nei loro intenti.
La seconda deriva dall’obiettiva eccezionalità della situazione che si è creata, estranea a qualunque abbecedario democratico. Non bisogna infatti nascondersi i rischi di una soluzione adottata in stato di emergenza e seguendo procedure che hanno comportato evidenti forzature della prassi costituzionale. Per quanto si voglia addolcire la pillola, invocando il bene comune o sostenendo che non c’erano alternative, il governo Monti configura a tutti gli effetti una reggenza di tipo commissariale, imposta all’Italia da autorità e organismi non politici (come tali privi di qualunque legittimazione democratica) e chiamata a realizzare un’agenda che non è stata sancita o approvata da alcun voto popolare.
Da questo punto di vista appare forse eccessivo lo giubilo dimostrato in queste ore dagli oppositori storici di Berlusconi. La comprensibile soddisfazione per le dimissioni del Cavaliere (la cui inedia ha sicuramente contribuito ad aggravare la crisi), la fiducia giustamente accordata alla saggia figura di Napolitano e le legittime preoccupazioni per le sorti dell’economia italiana non devono infatti far dimenticare che siamo divenuti – ci piaccia o meno – un Paese a sovranità limitata, nel quale le regole del confronto democratico-parlamentare sono state di fatto temporaneamente sospese e nel quale un’intera classe politica è stata esautorata dalle sue funzioni.
Senza contare che quella che ci aspetta è una cura da cavallo liberista che davvero non si capisce come possa conciliarsi con le aspettative di equità sociale storicamente predicate dalla sinistra: la cui insipienza programmatica, le cui divisioni interne, la cui incapacità a costruire un’alternativa politicamente credibile al berlusconismo, sono indicative di un fallimento non inferiore a quello fatto registrare dal centrodestra e che certo non può essere nascosto, come si sta cercando di fare, dietro dichiarazioni nel segno della responsabilità e del senso dello Stato.
Monti ha dinnanzi a sé grandi incombenze e un cammino difficile; e sarà bene, nell’interesse dell’Italia, sostenerlo in Parlamento senza fargli sgambetti. Ma è difficile sottrarsi al pensiero che quando accaduto – oltre ad aprire una fase politicamente nuova, densa di incognite ma magari foriere anche di positive trasformazioni – configuri una dèbacle collettiva di portata storica. Dimettendosi Berlusconi ha pagato, giustamente, la colpa di non aver fatto nulla di ciò che aveva promesso e di essersi ostinare a guidare di un’armata degna di Brancaleone. Ma sconfitti ne usciamo tutti, senza eccezioni.
* Direttore della “Rivista di Politica” e dell’Istituto di Politica