di Chiara Moroni*
Mentre siamo in attesa delle risposte positive dei mercati finanziari ad un cambio di governo – quelle stesse risposte che sembravano certe alla vigilia ma che tardano ad arrivare – e l’Italia è governata da una compagine che non è uscita dalle urne, liberamente scelta dai cittadini attraverso il voto, ma nominata dall’élite – nazionale? – come si fa con i consigli d’amministrazione delle aziende in crisi, non resta che riflettere sul fallimento che tutto questo significa per almeno due dei sistemi interni al nostro Paese.
Il primo sistema a segnare un evidente crisi con relativo inevitabile fallimento è quello della politica. Il sistema politico, nella sua struttura, nelle sue logiche e in modo particolare nelle conseguente capacità di guidare, affrontare e risolvere le crisi del Paese, ha dimostrato una difficoltà endogena all’azione e alla progettazione di soluzioni alternative ed efficaci. Non è stato solo il centrodestra al governo a palesare l’impossibilità di assumere decisioni difficili e complesse, che andassero oltre la ricerca costante e distorcente del consenso popolare e dell’accordo a tutti i costi con tutte le parti sociali. Il centrosinistra, infatti, bloccato da un quindicennio di antiberlusconismo sterile e asfittico, non ha saputo elaborare un’alternativa di governo e di gestione della cosa pubblica concreta e credibile che sapesse oggi proporsi efficacemente tanto da garantire un risultato vincente ad eventuali elezioni anticipate.
In poco meno di vent’anni, entrambi le parti politiche, attraverso il sistema dell’alternanza, hanno in definitiva condotto il Paese nell’incapacità di resistere in modo dignitoso alla crisi internazionale, rendendolo finanziariamente e politicamente debole e attaccabile.
Il fallimento della politica è evidenziato anche dal rifiuto di assumere la responsabilità di quanto accade e delle eventuali risoluzioni necessarie, ma anche dal fatto che le misure correttive che mercati e Unione Europea ci chiedono sono state all’ordine del giorno dei vari governi come riforme necessarie e improrogabili a partire dalla fine della prima Repubblica e non hanno mai trovato la via politico-istituzionale per essere attuate.
Il risultato è un accordo trasversale che coinvolge i partiti di destra, di sinistra e di centro – fatta eccezione per alcuni che seppur minoritari restano coerenti con se stessi – volto a declinare responsabilità e decisioni e affidarsi al sempre discutibile governo tecnico, che mancando della legittimazione delle urne e quindi di un legame basato sull’esplicita delega del potere da parte dei cittadini ai propri rappresentanti, non dovrebbe essere mai la soluzione auspicabile e percorribile.
La Spagna ci dimostra come in un sistema democratico efficace può accadere che un governo si dimetta per evidente fallimento della propria politica e senza rivoluzioni né rovesciamenti forzosi gestiti dall’alto, si rimetta alla scelta popolare il nuovo ordine politico, con le forze in precedenza all’opposizione responsabilmente capaci di proporre soluzioni credibili.
Ma nella condizione in cui versa il nostro Paese, non è solo la politica a dover affrontare un evidente fallimento. La società civile con la propria cultura e le proprie dinamiche interne sta dimostrando, al pari del sistema politico, un alto grado di immobilismo e al tempo stesso un ripiegamento colpevole sul privato che, negando il senso della comunità e della collettività, ha contribuito in modo radicale al disfacimento del nostro sistema sociale nel suo complesso.
Nella situazione critica che stiamo vivendo, gli italiani hanno espresso un dissenso in un certo senso pacato per il governo uscente e un entusiasmo acritico per l’ennesimo uomo della salvezza, capace di toglierci d’impaccio salvo poi rinnegarlo a tempo debito.
Perché non si riesce a trasformare l’individuale e privata indignazione dei singoli in azione civile di dissenso? Gli italiani protestano in privato, salvo poi trovare la soluzione alternativa a garanzia della propria sfera privata in attesa del prossimo salvifico – anche se temporaneo – cambiamento piovuto, quando non imposto, dall’alto.
Se da un lato questa strategia privata e al tempo stessa pubblica ha rappresentato per secoli una forza adattiva che ha permesso di sopravvivere anche nelle peggiori situazioni sociali e politiche, oggi questo immobilismo sociale e civile è distruttivo al pari dei limiti del sistema politico.
Siamo ad un punto di degrado politico-istituzionale tale che difficilmente il sistema saprà autorigenerarsi. La società italiana deve assumere una maggiore cognizione critico-riflessiva, tornare ad occupare la sfera pubblica in modo consapevole e spingere il sistema politico ad una ricostruzione radicale sia ideale che pratica. È necessario liberare e incoraggiare la mobilitazione civile, unica forza capace di ridare credibilità ad un Paese al collasso. Che sia la società civile a smuovere il sistema sociale e politico. Ma perché possa esplicitare tale funzione è necessario che sia a sua volta capace di un profondo cambiamento culturale che la spinga fuori dall’egoismo privatistico e autoreferenziale, per ridarle la forza propulsiva e di controllo che gli è propria.
* Docente di Comunicazione politica all’Università di Viterbo “La Tuscia”