di Roberto Valle

Il berlusconismo declina non con un rombo, né con un lamento ma con un crepuscolo aurorale, tornando alla televisione delle origini, a Lascia o raddoppia? Il Cavaliere  sì che se ne intende e, come recita uno slogan, dopo le dimissioni  raddoppia il proprio impegno:  il berlusconismo nella sua fase terminale sembra assumere di nuovo il “lampante grigiore” delle sue lontane origini televisive. Questa estrema deriva dell’ideologia milanese, che ha dominato il panorama politico italiano dal miracolo economico ai nostri giorni, è stata vaticinata da Luciano Bianciardi, del quale ricorre quest’anno il quarantennale della morte.

Bianciardi è lo scrittore arrabbiato, l’ultimo scapigliato, il poeta della dissoluzione e della dissipazione che ha descritto la vita agra dell’intellettuale all’epoca della civiltà di massa. Dall’opera narrativa e pubblicista di Bianciardi si può trarre una sorta di antropologia dell’intellettuale al tempo della riproducibilità tecnica del lavoro culturale;  l’opera di Bianciardi, infatti, può essere letta come il romanzo autobiografico,  per nodi e per frammenti, della distonia-atrofia dell’intelligencija italiana del Novecento nelle sue diverse metamorfosi idealtipiche: lo scrittore milite arcinoto come D’Annunzio, “eroe immoralista” e populista della piccola Italia; il prete rosso comunista; l’insegnante come “bracciante intellettuale”; il traduttore artigiano; l’avanguardista neodadaumpa come Balestrini epitome della cultura informe scaturita dal miracolo economico che, come Umberto Eco, ha tentato di spiegare la subcultura di massa con la fenomenologia  di Husserl; il quartario che, come il pubblicitario, non produce, non trasforma, ma “stimola, aiuta, consiglia”; il massmediologo cattedratico impegnato nella perenne ed estenuante ricerca dello “specifico televisivo” quasi fosse una manifestazione  dell’essenza divina delle comunicazioni di massa; l’intellettuale massa protagonista del ’68 (e dei cinquant’anni successivi) che ha generato un “panorama linguistico squallido” e che, abbandonando l’ideologia protestataria, domina la comunicazione politica e mediatica.

Capitale del lavoro culturale nell’epoca della  provincializzazione globale  della cultura è, per Bianciardi, Milano: centro ideologico della “diseducazione sentimentale” e politica al tempo del miracolo economico. L’ideologia milanese, che ha pervaso di sé l’orrida e insipida epoca  dello sboom (oggi al suo definitivo tramonto), è l’epitome, per Bianciardi, dell’“attivismo ateleologico della civiltà moderna”. L’etica del lavoro si dissolve nella “smania di attivismo” inconsulto, una perpetua gara per arrivare primi e per affermare, attraverso il guadagno, il proprio successo (che per Bianciardi è solo il participio passato del verbo succedere). In realtà, il lavoro dei longobardi è “frammentario” e “polverizzato”: tale frammentarietà polverizzata è emblematicamente rappresentata, per Bianciardi, dalla selva di capannoni-officina millantati per industrie e dall’affermazione del quartario massmediatico.

Bianciardi descrive con acume socio-antropologico il modernismo reazionario dell’ideologia milanese che esprime il proprio disprezzo per la cultura riducendo l’intellettuale a funzione, a una sorta di ragioniere di anime che deve orientare il consumatore verso i sottoprodotti della subcultura di massa, propagandandoli attraverso la pubblicità e la televisione. L’Italia dello sboom resta profondamente analfabeta e manifesta una idiosincrasia per la cultura, esaltando come imprese culturali le gesta dei malavitosi moderni: per Bianciardi, Milano non  ammira i creatori di cultura, ma i rapinatori come quelli di via Osoppo (padroni di Milano) che nel febbraio del 1958 svaligiarono il furgone blindato della Banca Popolare di Milano, usando una tecnica moderna.

Nella sua monotona e ridicola polemica contro Roma e lo Stato sanguisuga, l’ideologia milanese si è alimentata di luoghi comuni tratti da discorsi da Settebello: il leghismo, infatti, né un epifenomeno del qualunquismo ferroviario. Con la sua diffidenza verso i poteri centrali, Milano, per Bianciardi, è “generica e irrazionale” e preferisce il privato allo Stato per eludere il fisco ed inviare la grana ad “ammuffire nelle banche svizzere”. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta i padri fondatori dell’ideologia milanese sono stati Mike Bongiorno e Adriano Celentano.

L’ideologia milanese, per Bianciardi, si presenta con la “faccia pecorile” di Mike Bongiorno, un uomo “onestamente mediocre” che deve il suo successo al suo “lampante grigiore” e che vuole sapere il prezzo di ogni cosa, dalla corona ferrea alla Tour Eiffel, e chiede con ostinazione bovina: “Quanto potrà valere?”.

Dopo la vittoria di Celentano al Cantagiro del 1962, Bianciardi intuisce la valenza ideologica del sorriso celentanoide (che Gramellini attribuisce a Berlusconi), quale espressione emblematica  del neoqualunquismo neocapitalista (prodromo del berlusconismo): secondo Bianciardi, il giovane Celentano era “saldo e avveduto” e presto avrebbe lanciato, oltre ai dischi, “una filosofia totale”, avrebbe scritto libri, sarebbe intervenuto nei dibattiti sull’alienazione e sull’incomunicabilità, come un intellettuale accreditato. Prima e meglio di Umberto Eco, Bianciardi, con la sua rubrica televisiva Telebianciardi (comparsa su diverse testate dal 1962 al 1971), ha compreso non solo la fenomenologia di Mike  Bongiorno, ma anche la valenza ideologica e imagologica della televisione che non è uno specchio dei tempi, ma un “superocchio” allucinogeno capace di scegliere le immagini e di comporle in sequenza secondo il criterio della falsificazione straniante dalla realtà. Tale falsificazione, per Bianciardi, non era solo una conseguenza del monopolio televisivo della Dc che ne aveva fatto uno strumento di propaganda dell’american way of life per acquietare i timori della piccola borghesia provinciale anticomunista con un livello economico spesso inferiore a quello del proletariato urbano. La privatizzazione della televisione, sul modello americano, avrebbe condotto a una espansione esponenziale della pubblicità  e  la  propaganda pubblicitaria è una ideologia: il miracolo economico aveva, secondo Bianciardi, affermato il primato ideologico di Carosello e del copywriter.

Il mestiere del copywriter sembrava destinato a sedurre gli stessi scrittori e Bianciardi immagina delle reclame scritte da Moravia e da Pasolini: nel pubblicizzare il costume da bagno Acchittaflex, Pasolini avrebbe utilizzato dei ragazzi di vita che fanno il bagno al fiume con il costume Acchittaflex rubato e si scambiano parolacce. L’ideologia milanese, secondo Bianciardi, sarebbe sfociata nella “politica-Carosello” asservita alla teologia del marketing e i diversi orientamenti e partiti politici sarebbero stati destinati a essere propagandati come un qualsiasi prodotto di consumo. Bianciardi conia ironicamente alcuni slogan della politica-Carosello che anticipano la deriva della politica spettacolo degli anni Ottanta e Novanta: il centrosinistra vuole il “progresso frenato”; Movimento sociale “etichetta nera, la fiamma tricolore che ricrea un’atmosfera”; “il signore sì che se ne intende: grazie tanto ha votato Malagodi”.

L’informe subcultura televisiva, secondo Bianciardi, ha omologato il linguaggio politico, infarcendolo di ridicoli anglismi perché, nell’epoca neocapitalista e neocattolica,  i politologi hanno letto gli  stessi libri americani mal tradotti: sulla scia di Giorgio Galli, dirigenza politica italiana è stato tradotto con leadership. Gli stessi fascisti, in televisione, non hanno più usato termini come olocausto, sudario, martirio, neanche patria ma paese; non hanno usato più forgiare ma formare. Nell’arco di un ventennio, per Bianciardi, la dirigenza politica italiana si sarebbe uniformata consentendo la formazione di un pool dirigenziale composto di uomini politici uguali,  intercambiabili e professionalizzati al quale i diversi partiti avrebbero potuto attingere secondo il bisogno e a loro piacimento. Si sarebbe istituito, perciò, una sorta di albo dei politici non dissimile da quello dei medici e si sarebbe potuto accedere alla professione politica tramite concorso. La “libidine neocapitalistica” ha prodotto una serie di allucinazioni ideologiche a catena: automazione, produttività, miracolo economico.

I rapporti produttivi e umani sono rimasti gli stessi e sono peggiorati, perché il lavoro culturale è sottoposto a un padronato apparentemente benevolo e che si presenta – come Feltrinellli (per cui Bianciardi ha lavorato) o Berlusconi –  sotto le mentite spoglie del benefattore di masse informi e disponibili composte di vitelloni globali che vogliono essere perennemente intrattenuti e che sono avidi di spettacoli. Mentre il Palazzo di Pasolini sembra essere deserto o abitato da sempre più usurate maschere del vuoto, il torracchione di vetro e di cemento irto in cima di parafulmini, antenne e radar di Bianciardi, simbolo di quel  potere imagologico che ha forgiato l’homo zapiens, continua a incombere minaccioso sulla vita agra del lavoro culturale.

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