di Stefano De Luca

Ci siamo oramai abituati a misurare la distanza che ci separa dalla Germania attraverso i punti dello spread. E’ un bollettino quasi quotidiano, che viene seguito con una certa ansia non solo dagli addetti ai lavori, ma dalla maggior parte degli Italiani. In quel numero secco a tre cifre – più concreto e immediato, per molti di noi, di una ‘astratta’ percentuale – vediamo, come su di una carta millimetrata, la distanza che ci separa da una nazione più solida, meglio organizzata, più seria della nostra. Certo, a fare quel numero (così duro e preciso) sono le aspettative e gli umori (così impalpabili e volubili) degli operatori di mercato e delle agenzie internazionali di rating. Ma, ci piaccia o meno, a quel numero è appeso il nostro debito pubblico e quindi il nostro destino economico. Inutile, quindi, contestare l’importanza dello spread; meno inutile, invece, sviluppare altre analisi, non necessariamente quantitative, per capire quale sia l’effettiva distanza che ci separa dalla Germania.

Molto interessante, a questo proposito, è l’intervista che Joschka Fischer (ex ministro degli Esteri tedesco), ha rilasciato di recente al “Corriere della Sera” sulla risposta dell’Europa alla crisi finanziaria. Cosa dice l’ex leader del Sessantotto francofortese, che ormai da molti anni è uno dei più importanti dirigenti dei Verdi tedeschi? Dice sostanzialmente tre cose. La prima è che l’Europa che abbiamo sotto gli occhi «è un’Europa germanizzata»: i mercati dettano l’agenda, Berlino (con Parigi al seguito) decide cosa fare, gli altri Paesi europei si allineano. Tutto questo, secondo Fischer, è «profondamente malsano». Ma è anche è il frutto di una causa ben precisa: ovunque ci sia una Banca centrale, questa ha i suoi interlocutori in un Tesoro e in un Parlamento. In altre parole, ovunque vi sia unione monetaria, vi è anche unione fiscale e unione politica. Tutto questo in Europa non c’è: ed è in questa profonda smagliatura che si incunea l’azione devastante dei mercati. A questo punto, il lettore si aspetterebbe la proposta di un’Europa federale, insomma la vecchia idea (un po’ logora, ma di facile effetto) degli Stati Uniti d’Europa. Ma su questo tema il leader dei Verdi riserva alcune sorprese. Quando parliamo di Stati Uniti d’Europa, dice, non dobbiamo pensare troppo agli Stati Uniti d’America: «la nostra è una cultura profondamente diversa. Le nostre nazioni hanno secoli di vita, lingue e culture differenti». E questo, sottolinea Fischer, «non cambierà». Se ad esempio ci limitassimo, applicando un modello teorico, ad eleggere a suffragio universale il Presidente della Commissione Europea, questo non gli conferirebbe maggiore ‘legittimità democratica’; anche se parlasse dodici lingue questo Presidente sarebbe percepito dai cittadini delle nazioni europee come un lontano tecnocrate. E tutto questo perché la ‘legittimità democratica’ non la si costruisce a tavolino, ma bisogna andare «a prenderla dov’è». E al momento attuale, nella nostra Europa, la legittimità sta nei governi e nei parlamenti nazionali, che – bene o male (più male che bene) – sono avvertiti come ‘propri’ dai cittadini in carne ed ossa. Tutto ciò significa che i primi passi da fare in direzione di un’Europa federale sono la trasformazione del Consiglio Europeo in un Governo europeo e la creazione di una seconda Camera del Parlamento europeo, formata sulla base dei parlamenti nazionali. Se è possibile fare tutto ciò in 27 o 28, Gran Bretagna inclusa, bene; in caso contrario, dice Fischer, andrà avanti un’avanguardia, come sempre è accaduto in Europa. Il leader dei Verdi non manca di lanciare una frecciata alle agenzie internazionali di rating, osservando come non rispondono a nessuno; ma non indulge in polemiche e propone invece di istituire un’agenzia europea di rating, strutturata come un’organizzazione indipendente senza fini di lucro, sul modello delle associazioni dei consumatori.

Le proposte di Fischer, beninteso, sono tutte da discutere: bisognerebbe capire, ad esempio, in che senso il Consiglio Europeo, composto dai capi dei governi nazionali, possa trasformarsi in un vero e proprio governo e quali poteri effettivi avrebbe un eventuale Bundesrat europeo. Ma colpisce la sensibilità storica e il realismo politico che ispira queste proposte: non c’è spazio, in esse, per soluzioni meramente teoriche o per declamazioni moralistiche. C’è invece lo sforzo di pensare insieme idee e realtà, progetti e vincoli di realizzabilità, sforzo nel quale consiste la nobiltà della politica. Di Fischer bisogna anche ricordare che, ormai molti anni fa, si scusò per le violenze commesse dal movimento di contestazione negli anni Settanta (quegli anni che, secondo alcuni nostri contestatori ‘sempreverdi’, furono invece formidabili).

A questo punto mi chiedo: cosa direbbe – su temi come la governance europea, la legittimità democratica, il ruolo dei governi nazionali, le agenzie di rating – un esponente italiano della composita galassia ‘verde’? Sarebbe interessante e istruttivo fare questo raffronto. In questo caso non disporremmo di indici quantitativi: ma temo che un eventuale spread della cultura politica, tra Italia e Germania, andrebbe molto oltre la soglia dei 500 punti.

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