di Alessandro Campi
Si può ambire a salvare l’Italia senza cambiarne in modo radicale la mentalità e la struttura sociale? La domanda sorge spontanea guardando al modo, aggrovigliato e defatigante, con cui sta procedendo all’interno della Commissione Bilancio e Finanze della Camera la discussione sulla manovra finanziaria presentata dal governo. Una manovra tanto dolorosa quanto necessaria, contro la quale si sono scatenati malumori d’ogni tipo: da quelli del sindacato, tornato a fare fronte comune, a quelli degli ordini e raggruppamenti professionali, tutti sul piede di guerra, senza scordare infine le inquietudini di un ceto parlamentare che non vuole saperne di rinunciare ai suoi storici appannaggi.
Siamo impegnati, a giudizio di molte autorevoli fonti, in una corsa contro il tempo per evitare la bancarotta del Paese. Siamo, ci viene detto da settimane, in piena emergenza economica, e questo giustifica l’esistenza di un esecutivo tecnico di salvezza nazionale, nato nel giro di pochi giorni e sostenuto da un’ampia e politicamente anomala base parlamentare, e la durezza delle misure di risanamento adottate da quest’ultimo.
Ma ammonimenti e allarmi, l’invito ad accettare sacrifici generalizzati col fine di evitare una catastrofe collettiva, a quanto pare non sono stati sufficienti a far ragionare o a rendere disponibile l’Italia delle corporazioni e degli interessi organizzati. Un pezzo di Paese – forse nemmeno maggioritario – incapace di pensare in termini di bene comune e il cui primo proponimento è, quanto pare, non cedere di un millimetro rispetto ai privilegi acquisiti e alle posizioni di vantaggio accumulate nel tempo.
Più che con l’emergenza, in queste ore l’Italia sta in realtà facendo i conti con la sua storia, fatta di appartenenze settarie e di cerchie professionali chiuse, e con la sua cattiva coscienza, alimentata da una visione della società da sempre all’insegna del particolarismo e della furbizia intesa come unica etica di massa.
Accade dunque che chiunque veda intaccate o messe a rischio le sue posizioni o rendite – si tratti dei farmacisti, degli avvocati, degli addetti al “trasporto di persone mediante autoservizi non di linea” (come vengono fantasiosamente definiti i taxisti dalla nostra burocrazia) o della stessa nomenclatura politica che per prima dovrebbe dare il buon esempio – si senta in dovere di rivoltarsi contro le iniquità consumante a proprio danno e di minacciare scioperi, serrate e proteste d’ogni natura. Senza nemmeno chiedersi se, nel mentre la nave affonda insieme ad equipaggio e passeggeri, non sia preferibile rinunciare a qualcosa di ciò che si possiede, con un gesto d’altruismo che solo i forti e i meglio organizzati possono concedersi, invece di pensare a salvare se stessi sempre a danno del prossimo e dei più deboli.
Il pluralismo sociale, come si sa, alimenta la democrazia politica. Al tempo stesso una società capace di organizzarsi dal basso e di gestirsi in autonomia è il miglior antidoto contro l’invadenza del potere pubblico. Ma corporazioni, caste e oligarchie, chiuse al loro interno e indifferenti al benessere collettivo, sono altra cosa da un corpo sociale dinamico, aperto, innovativo e minimamente liberale.
L’Italia non è una realtà variegata e molteplice, come spesso si sostiene con compiacimento, ma incline alla separatezza e all’egoismo, frammentata e profondamente divisa al suo interno. E lo è per ragioni storico-culturali antiche, che nessun governo o regime politico è mai riuscito a rimuovere. Semmai è avvenuto il contrario, nel senso che la politica per prima ha spesso dato prova di non possedere una visione d’insieme dei problemi dell’Italia e alimentato a proprio vantaggio, per mere ragioni di consenso elettorale, le istanze settarie e corporative presenti nel tessuto nazionale.
E dunque non c’è da sorprendersi se anche in un momento tanto difficile, a dispetto degli inviti all’unità e alla solidarietà che vengono da molte parti, ognuno vada per la sua strada, a costo di alimentare conflitti d’ogni sorta e di sottrarsi ad ogni senso di responsabilità. Il Nord contro il Sud. La classe politica contro i suoi stessi cittadini. Le singole categorie professionali contro lo Stato. Il Parlamento contro il Governo. L’Italia contro l’Europa. Gli individui singoli in lotta tra di loro nel nome della propria sopravvivenza.
Che il governo Monti non avrebbe avuto vita facile lo si era capito da un pezzo. Sostenuto controvoglia dai partiti che nominalmente gli garantiscono una maggioranza parlamentare, appoggiato con entusiasmo dall’opinione pubblica ma solo sino a che non ha messo mano ad un programma draconiano di riforme e provvedimenti, privo di una sua base di legittimità democratica, accusato di essere espressione di poteri forti o esterni, l’ostacolo maggiore con il quale si trova ora a fare i conti è la natura stessa del Paese che dovrebbe salvare dal disastro: culturalmente ostile al cambiamento, socialmente incline alla conservazione degli equilibri consolidati, politicamente avvezzo all’accomodamento e al rinvio delle decisioni percepite come sgradevoli, economicamente governato da clan, gruppi corporati, lobbies e oligarchie che non concepiscono altro che la difesa ad oltranza del proprio interesse.
Come si possa liberalizzare e rendere dinamico un Paese così, incapace di aprire gli occhi anche dinnanzi al baratro nel quale sta cadendo, rimane francamente un mistero, che forse nemmeno Monti e i suoi volenterosi ministri riusciranno a risolvere.
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