di Giuseppe Balistreri*

La fine del governo Berlusconi evidenzia innanzitutto, con un anno di ritardo, lo sgretolamento della coalizione con cui Berlusconi era riuscito ad ottenere, a più riprese nell’arco di quasi vent’anni, la maggioranza politica nel paese.

La coalizione si reggeva su tre gambe: il neonato partito Forza Italia, la Lega e Alleanza Nazionale. Si trattava di una aggregazione non del tutto scontata, in quanto si trattava di tenere insieme culture, comportamenti, obiettivi, sensibilità ed ideali politici non facilmente amalgabili ed anzi per larga parte tra loro contrastanti (in particolare il nazionalismo di AN ed il federalismo, ai limiti del secessionismo, della Lega). Soltanto il sostanziale, diciamo così, pragmatismo di Forza Italia, cioè il suo distogliersi dagli obiettivi futuri di principio, a favore della Realpolitik presente (e cioè il perseguimento degli scopi immediati di potere), ha permesso ad una coalizione così eterogenea di durare nel tempo.

Proprio per evitare il rischio del crollo di un impalcatura così precaria, Berlusconi si era lanciato sulla via del partito unico con AN. Il rischio di un disimpegno da parte del partito di Fini a questo punto sarebbe stato più difficile. Ed invece, l’argine eretto da Berlusconi non ha resistito e si è verificato proprio quella fuoruscita che egli temeva e che con il partito unico aveva voluto evitare. Anche l’indisponibilità di Casini ha avuto in questo un ruolo significativo. I motivi che hanno determinato la spaccatura del centro-destra vanno ricercati non solo nella politica leghista, divenuta per Fini sempre più indigesta, ma anche nell’accentuarsi dello scontro istituzionale determinatosi con l’impennata degli attacchi di Berlusconi alla magistratura (a cui va sommata la costitutiva mancanza di senso delle istituzioni propria di Berlusconi). Essendosi così raddoppiati i motivi di dissenso, a questo punto Fini non poteva continuare a rimanere a lungo nel neo-partito, di cui, messo con le spalle al muro e per errata valutazione politica, si era fatto co-fondatore. Ora anche la politica berlusconiana di aggregazione e fagocitazione del gruppo di AN falliva. Tuttavia, la fondazione del nuovo partito consentiva a Berlusconi di attenuare le perdite. Non tutto il gruppo di AN infatti confluiva con Fini, una grossa parte rimaneva nel partito di Berlusconi (sostanzialmente anche qui per calcolo di Realpolitik). Senza il partito unico per Berlusconi la perdita sarebbe stata sicuramente maggiore.

Tuttavia, anche così, con perdite limitate, la fuoruscita di Fini non consentiva più a Berlusconi di avere la maggioranza. La combinazione partitica originaria veniva minata alla radice. Ed in questo senso Berlusconi ha ragione nel dire che la scissione di Fini costituisce il “peccato originale” che ha segnato la fine del suo governo (a cui andrebbe aggiunta però anche la già citata indisponibilità di Casini). A quel punto Berlusconi doveva prendere atto che non era più in grado di governare. Invece ha voluto tirare avanti con un nuovo schieramento posticcio e raccogliticcio, il che era in qualche modo anche inevitabile per lui, visto che le sue sorti personali sono sempre state così strettamente intrecciate alle sue sorti politiche. Prolungare ulteriormente il governo (una salvezza momentanea) è stato un errore di Berlusconi in quanto ne ha accentuato il logoramento (e, aggiungiamo, una sciagura per il paese). Se avesse fatto subito il famoso passo indietro che Fini gli chiedeva, probabilmente avrebbe avuto ancora qualche chance e cioè non avrebbe messo in forse l’intero suo destino politico (ma in politica ci sono anche “i cicli”, sebbene in Italia, a differenza di altri paesi, si tenda a ignorarli).

Oggi qualsiasi futuro governo Berlusconi è diventato improponibile. Bene che gli vada, invece del ruolo di primo attore, dovrà accontentarsi di quello meno esposto di impresario. Ma anche Fini commise l’errore di rompere del tutto con il governo Berlusconi e di stanarlo in modo da determinarne subito la caduta. Certo, per il paese sarebbe stato meglio, ma Fini doveva anche prevedere che Berlusconi avrebbe fatto di tutto per non cedere. E così il 14 dicembre del 2010 ha subito una grave sconfitta politica che poteva evitare e che ha increspato fortemente l’esordio smagliante della sua nuova leadership. Ancora oggi da quel colpo Fini non si è ripreso e non sappiamo se e quando si riprenderà.

Dunque Berlusconi crolla e con lui dichiara default l’intera classe politica. Non solo Berlusconi ha dovuto fare un passo indietro, ma la politica stessa in quanto tale. Ciò a cui stiamo assistendo è la dichiarazione della politica di non essere fatta per affrontare i tempi di emergenza. Ma se la politica serve solo per i tempi di vacche grasse, allora non sappiamo cosa farcene della politica. Sembra che, finché c’è da dividere e da distribuire la politica vada bene, ma quando le casse sono vuote, e quando quelle casse sono vuote perché la politica le ha svuotate, allora c’è bisogno dei tecnici. Dunque, i tecnici sarebbero le formiche ed i politici le cicale?

Ma chi è un tecnico? Ed è il tecnico veramente un tecnico? Quello che qui chiamiamo tecnico non è altro che, come ha specificato lo stesso Monti, colui che assume la guida dello Stato con esclusivo spirito di servizio e nel solo interesse della nazione. Il che veramente è proprio ciò che dovrebbe fare il politico, quando egli è veramente tale. Essere un rappresentante di parte e nello stesso tempo essere l’interprete dello spirito nazionale costituisce l’essenza stessa del politico in una democrazia. Ora, come è chiaro qui il politico può irretirsi in questa dialettica parte/tutto e non risolverla come dovrebbe, cioè con la conciliazione degli opposti. Il tecnico invece non conosce questa dialettica, egli è solo un rappresentante del tutto, cioè una personalità al di fuori dei partiti. Egli dovrebbe operare salomonicamente, ma il sale della democrazia consiste nell’antagonismo delle parti e nel loro superamento in avanti verso più partecipazione e ricchezza per tutti. Quindi il tecnico procede con una gamba ed una stampella. I suoi sono tempi di stasi, di sospensione, di resettamento per così dire del campo politico ed istituzionale. Quando appare il tecnico la politica ha fatto forfait e deve ricominciare da capo con il nuovo terreno di stabilità che le verrà preparato. Tuttavia, non può trattarsi del semplice ritorno allo status quo ante. Ci vuole una nuova ripartenza per non ritrovarsi di nuovo al punto di prima.

L’affidarsi al tecnico costituisce dunque una dichiarazione di impotenza da parte della politica. Nel momento in cui il politico non riesce a trasformare la posizione di parte in una politica che affermi la centralità dell’interesse nazionale, egli allora deve ricorrere al tecnico, e cioè al non-politico, a colui che ignora la tensione parte/tutto e guarda direttamente al tutto (ma ad un tutto “astratto”, cioè non frutto dell’individuazione, tra gli interessi in campo, di quelli in grado di interpretare al meglio le esigenze nazionali). Nel nostro parlamento oggi assistiamo perciò al fallimento della politica, del suo essere veramente tale. Per cui, l’unico modo per affermare l’interesse comune è stato ora per la nostra politica, quello di mettersi da parte, di dichiarare la propria incapacità. E fa questo perché nemmeno l’interesse di parte si vede oggi garantito dall’attuale politica. La politica oggi minaccia se stessa e per salvarsi ha dovuto accettare di rimettersi alla tecnica.

Con le dimissioni di Berlusconi, l’impossibilità di dar vita ad una nuova maggioranza scaturita dallo stesso schieramento, l’impraticabilità di nuove elezioni anticipate, l’incapacità dell’opposizione di prenderne il posto, si viene a sancire una crisi profonda della seconda repubblica, se non addirittura un suo definitivo tramonto. Nell’attesa che si profili una terza repubblica, osserviamo intanto che a salvarci dallo sgretolamento istituzionale che avrebbe potuto far seguito al crollo della seconda repubblica ci ha pensato ciò che ancora rimaneva della prima repubblica. Se oggi non siamo completamente allo sfascio lo dobbiamo proprio a quell’eredità della prima repubblica che si annidava ancora nella seconda. E cioè a uomini della prima repubblica come Napolitano, ai democristiani e a Fini. Tutte figure di politici affermatesi nella prima repubblica. E questo dimostra che l’unica classe politica significativa o veramente tale che l’Italia abbia avuto rimane quella di allora. La seconda repubblica ha dato sì il via ad una nuova generazione di politici, ma non ha dato vita a nessuna vera e propria nuova classe politica. Così è successo che nel momento del bisogno i politici della seconda repubblica si sono rivelati incapaci di farvi fronte. Senza quel “vecchio comunista” di Napolitano (a cui evidentemente il PCI aveva dato anche il senso dello Stato), senza “i vecchi marpioni democristiani” e senza quel “fascista” di Fini – e quindi senza il vecchio retaggio della prima repubblica che, evidentemente, di vizi ne aveva tanti, ma sapeva anche cos’era la politica, a questo punto non sapremmo che cosa fare e ci troveremmo non solo nel momento più buio della nostra storia repubblica, ma addirittura già nel baratro. Così vediamo che la seconda repubblica ha solo destrutturato la politica (le nuove abitudini linguistiche del ceto politico ne sono una spia significativa), ma non ha dato vita a nessuna nuova compagine politica.

Dopo la fine della prima repubblica era necessaria una nuova classe politica che prendesse in mano le redini dello Stato. Invece è come se lo Stato se ne fosse andato insieme alla prima repubblica. Sostituire la vecchia con una nuova classe politica era compito soprattutto delle formazioni politiche. Tra esse la meno nuova, cioè il Pd (molti leader di questo partito hanno ancora un percorso di continuità con la prima repubblica) non è stata in grado di produrre una nuova cultura di sinistra, una nuova forma di rappresentanza sociale e nuovi indirizzi del Welfare. Soprattutto manca la capacità di saldare, nei ceti sociali che esso rappresenta, identificazione con le istituzioni e rivendicazione dei diritti. Questa del Pd è comunque un’anomalia italiana, eredità del fatto che il più grande partito della sinistra italiana nel dopoguerra è stato il partito comunista e non il partito socialista. Al posto del Pd sarebbe meglio avere un chiaro e netto partito socialista, rappresentante delle esigenze e dei diritti sociali del paese, orientato verso l’equità e la giustizia sociale. Che al suo interno possa esserci una componente di cattolicesimo sociale nessuno può vietarlo, ma ricordiamo che la cultura del cattolicesimo sociale è ben diversa da quella socialista ed inoltre anch’esso, da destra, è capace di farsi carico delle esigenze popolari. Quindi non è detto che tutto ciò che è “sociale” debba essere necessariamente di sinistra.

Insomma, se in Italia ci fossero una sinistra che fosse veramente tale (di estrazione socialista) ed una destra che fosse veramente tale (liberal-conservatrice), e quindi non estremiste, ma entrambe moderate, con la capacità anzi di rendere del tutto residuali altre formazioni radicali più a sinistra o più a destra, le cose andrebbero certamente meglio. Ad una forte polarizzazione dovrebbero però unirsi degli elementi in comune, pienamente condivisi: forte senso del “sociale”, anche da parte della destra, sebbene in modo diverso dalla sinistra e forte senso delle istituzioni, anche da parte della sinistra (e cioè identificazione completa e senza remore con lo Stato, le sue istituzioni e con la cultura d’impresa).

Ma perché ci si possa identificare totalmente e senza eccezione con lo Stato bisogna che questo sia veramente tale e cioè che sia diretto e gestito dal suo personale con completa abnegazione e con esclusivo spirito di servizio. È necessario che le istituzioni dello Stato siano realmente pubbliche. Ed è necessario che il servizio pubblico, e cioè i servizi resi ai cittadini, controbilancino perfettamente quel che i cittadini danno allo Stato. Solo allora potrà esserci piena identificazione dei cittadini con lo Stato. Un nuovo patto civile esige oggi che lo Stato abbassi le sue pretese, che i cittadini osservino i loro doveri fiscali, una volta che siano più sapientemente calibrati e che essi ricevano in servizi e in Welfare tutto quel che serve per equilibrare i loro contributi.

Ma torniamo al punto da cui siamo partiti, e cioè la mancata sostituzione, nella seconda repubblica, della vecchia con una nuova classe politica. Abbiamo visto che questo non è successo con il Pd, ma la cosa più grave è che non è successo neppure con il centro-destra, e cioè con lo schieramento che ha costituito veramente la novità della seconda repubblica e che ha messo in campo formazioni e personale politico che, tranne alcuni casi, non provenivano dalla prima repubblica. Da qui doveva scaturire la nuova classe politica. La verità è invece che queste nuove formazioni erano costitutivamente incapaci di tale nuovo compito ed anzi ne rappresentavano la negazione in carne ed ossa. Se intendiamo con classe politica una formazione dotata di senso dello Stato e capace di guidare lo Stato secondo quelli che sono i suoi principi propri, allora né la Lega né il partito di Berlusconi potevano darci una nuova classe politica. Quando l’ha capito (e l’ha capito in ritardo, ma allora ancora nessuno l’aveva capito), Fini se n’è andato.

Dico qui en passant che nemmeno Di Pietro ha segnato un presenza significativa per le istituzioni politiche italiane, esso anzi è espressione della stessa anti-politica che anima il berlusconismo. Il dipietrismo per stile politico, per gergo, per cultura popolare condivide moltissimi tratti in comune, da un lato, con il suo nemico e dall’altro con il ribellismo di cui la società italiana, da cinquant’anni a questa parte, non si è potuta liberare. La legalità diventa un martello da brandire contro le istituzioni stesse, al connubio “legge ed ordine” si sostituisce quello di “legge e protesta”. La richiesta di legalità si accompagna al discredito delle istituzioni.

Da tutti questi accenni risulta chiaramente come dal partito di Berlusconi dovesse risultare impossibile la nascita di una nuova classe politica, malgrado egli sia stato per il resto un grandissimo innovatore del personale politico. Mai, nella prima repubblica, tante facce nuove come quelle avutesi nella seconda e senza Berlusconi (il quale a sua volta come politico era pure una faccia nuova), tutto questo non sarebbe stato possibile. Ma, appunto, se ha rinnovato il personale politico non per questo egli ci ha dato anche una nuova classe politica. Lui stesso non è mai diventato un politico, è rimasto sempre un “uomo del popolo”. La sua mancanza di serietà in tutto ciò che riguarda il cerimoniale e l’etichetta mostrano appunto l’incomprensione riguardo alla sfera di quell’ordine simbolico che s’incarna nella politica e senza di cui, e cioè con il suo trascinamento nella mera quotidianità, essa non è più veramente tale.

La politica non è solo la sfera della rappresentanza, ma anche il luogo in cui si dà rappresentazione del bene comune e dunque bisogna avere rispetto per le sue necessarie ritualità, senza di cui il “pubblico” non giunge alla sua visibilità. La mancanza di questo senso della rappresentazione pubblica, il che impone anche che, ogni politico, in quanto rappresentante del popolo e dello Stato, vi si adegui e vi contribuisca per la sua parte, costituisce la “rozzezza politica”. Questa, generalmente confusa con la democrazia, si ha quando si crede che si debba “stare tra la gente”, “parlare come la gente”, l’avere in definitiva anche lo stesso tornaconto della gente comune. Così invece della democrazia come ideale del miglioramento del popolo, si afferma la pratica della democrazia come peggioramento della classe dirigente. La politica è rappresentazione di un valore trascendente, quello del bene pubblico, senza di cui questo non può pervenire ad esistenza. Il bene pubblico infatti è un riferimento ideale, ed è privo di un tangibile riscontro empirico (nessun cittadino singolarmente, in gruppo o nella totalità dei votanti è portatore materiale del bene pubblico, ognuno, come è giusto, persegue il proprio interesse privato). Tolta la rappresentazione, rimane soltanto la pluralità incomponibile degli interessi eterogenei. Chi non accetta la rappresentazione, trasforma la politica in un’arena in cui tutto viene trascinato nel campo dei beni disponibili e negoziabili, compreso ogni brandello delle istituzioni pubbliche. Quindi il nuovo stile politico, la nuova comunicazione politica fatta di concetti elementari, non ha portato nulla di nuovo in politica, ma ha contribuito alla sua messa in crisi.

Il partito di Berlusconi si è rivelato costitutivamente non in grado di portare al rinnovamento di una nuova classe politica. È stato anzi il modo per impedire che se ne formasse una.

Su questo ha inciso molto anche il tipo di rapporto con cui Berlusconi ha guidato il partito, vale a dire quello del capo indiscusso con il suo seguito. Certo, non che di per sé il rapporto capo/seguaci non possa essere un rapporto politico, ma nel caso di Berlusconi non lo era. Si trattava infatti di un rapporto personale e padronale. E più che un leader carismatico egli è stato colui che ci ha ridato una versione aggiornata di un vecchio rottame politico (anzi, pre-politico) quale quello del patrimonialismo, di cui sono una spia anche le espressioni del suo lessico politico quali quelle di “fedeltà” e “tradimento”.

Berlusconi ha perciò rappresentato, con le novità che pure ha imposto, non l’affermarsi di una nuova stagione politica, ma il trionfo dell’impolitica. Egli ha approfittato dello smarrimento che ha colto la società italiana dopo il piazza pulita compiuto dai magistrati, per occupare l’enorme posto libero lasciato dal vuoto di rappresentanza in cui a quel punto di trovava il ceto medio italiano, ma non è stato in grado di colmarlo con una nuova proposta politica. Ed il motivo principale è che il nuovo centro-destra berlusconiano era costitutivamente incapace di farsi Stato, cioè di divenire egemone aderendo alle istituzioni dello Stato, non solo e non tanto occupandone i posti (di questo son capaci tutti, come mostra l’esempio della Lega), ma diventando il partito della nazione e quindi indirizzandole e, così facendo, servendole.

Il centro-destra invece, nel suo rapporto con le istituzioni e con lo Stato, si è considerato un fortilizio accampato in territorio nemico ed ostile. E se questo discorso vale per Berlusconi, vale ovviamente ancora di più per Bossi e la Lega. La Lega, pur essendo al governo, è stata l’“anti” per eccellenza. Costitutivamente non poteva identificarsi con le istituzioni dello Stato che gestiva, perché il suo compito era quello di arrivare a nuove istituzioni diverse da quelle presenti. La gestione del potere, con cui generalmente si identifica il fine di un partito, per la Lega rappresentava invece un fatto meramente tattico. Quando ha gestito lo Stato, la Lega lo ha fatto indipendentemente da quello che essa è, come dimostra l’ottima prova data da Maroni. La Lega pertanto poteva mettere al servizio dello Stato la sua classe politica, solo nella misura in cui lasciava tra parentesi la sostanza stessa del suo essere partito, la sua peculiarità cioè di essere, a differenza di tutti gli altri partiti, non un partito di rappresentanza nazionale (si sa che i deputati rappresentano soltanto la nazione), ma un partito di rappresentanza territoriale. In questo senso, come Berlusconi, ma in modo diverso da lui, la Lega era un “anti”: un anti-partito (perché non nazionale), un anti-Stato (perché voleva quello federale ovvero la fine dello Stato presente, ma che pure aveva accettato di gestire così com’è) ed in definitiva ha messo in campo solo un’anti-politica. Quale formazione di una nuova classe dirigente ci si poteva aspettare da una formazione politica che non aveva ancora visto nascere le istituzioni che avrebbe dovuto dirigere? O fa la rivoluzione (e dunque forma una classe politica rivoluzionaria) oppure gestisce lo Stato, accettando di metterne al servizio il suo personale politico (e di formarlo in tal senso).

La Lega non ha fatto né l’uno né l’altro, contribuendo da parte sua a rendere l’ultimo ventennio quello che è stato, e cioè il tempo delle non-scelte (a parte la scelta di Prodi di entrare nell’euro che però in qualche modo era una scelta dovuta, e la cui errata gestione ha determinato una svalutazione del valore reale del denaro del 100%, a malapena e solo in piccola parte recuperato dagli aumenti delle retribuzioni). Ma la Lega non ha fatto neppure quello che più moderatamente almeno ci si aspettava da essa, e cioè la richiesta di una assemblea costituente che desse vita ad un nuovo ordinamento dello Stato, perché non vi è dubbio che i problemi da essa posti, e cioè quello della disomogeneità territoriale e della disparità del peso contributivo (il nord non può continuare ad essere la ruota motrice dello sviluppo rispetto ad un sud rimasto sostanzialmente al traino) siano dei problemi reali ed impellenti. E qui, dopo il fallimento di un cinquantennio di politiche meridionalistiche, richiamarsi ancora alla retorica del solidarismo come continua a fare la sinistra, non serve a niente, ed anzi sembra aggiungere al danno anche la beffa. Ma rispetto ai problemi agitati, la Lega rappresenta più il loro stato febbrile che la cura da somministrarvi.

E dunque, siamo di nuovo esattamente da capo, e cioè con gli stessi problemi politici, economici e sociali che ci si presentavano nel 1994. La via allora imboccata dal paese si è rivelata un vicolo cieco. Oggi ci troviamo di fronte al compito di riprendere una nuova strada. Quale possa essere però non lo sappiamo e non sappiamo neppure se, qualunque essa sia, non si rivelerà anch’essa una strada che non porta da nessuna parte. Quel che sembra certo è che il Paese è stanco di tutto quello a cui ha assistito nell’ultimo ventennio. Ma se quando si è dato vita alla seconda repubblica i protagonisti della prima si erano fatti già da parte, qui ci troviamo ad augurarci una svolta politica quando i protagonisti del vecchio corso (di quello appena trascorso ed appena chiusosi) sono ancora gli stessi.

Forse «solo un Dio ci può salvare», ma anche noi dobbiamo metterci qualcosa di nostro. Se è vero che ci troviamo nel pieno dell’imponderabile, è anche vero che spesso è con esso che la “grande politica” deve misurarsi.

* Dottore di ricerca in Storia del pensiero politico, docente di filosofia e membro dell’Istituto di Politica

 

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