di Marino Freschi*

Dicembre terribile per la letteratura con la morte di Christa Wolf e ieri di Vaclav Havel, una personalità grandiosa: dissidente e poi presidente del suo altrettanto grandioso paese, la Cecoslovacchia.

Havel proveniva per sfortuna sua da una agiata famiglia della borghesia colta. Il padre era proprietario dell’edificio dove ancora oggi c’è lo storico cinema Lucerna con un ampio e distinto caffé e ristorante. In quel cinematografo Kafka vide quei film muti che segnarono la sua scrittura e in quel locale Havel ebbe i primi incontri e stimoli per l’attività artistica. Un’attività immediatamente interrotta dal regime socialista-stalinista che espropriò la famiglia e che costrinse il giovane “borghese” a proletarizzarsi e forse fu questa la sua fortuna.

Vari lavori d’occasione finché non approdò in un vicolo del centro a fare il macchinista teatrale al «Divadlo na Zàbradlìz». La brama di teatro era tanta e Havel, dopo una lunga gavetta, cominciò a scrivere, consapevole della macchina teatrale. Era, quello, uno dei tanti teatrini della straordinaria vita teatrale praghese, quella indimenticabile descritta da Angelo Maria Ripellino in Praga Magica. I numerosi drammi di Havel si situano soprattutto tra il 1963 – l’anno de La festa in giardino – e il 1979, quando venne arrestato per una detenzione dura fino al maggio del 1982. In questi anni scrisse, non sapendolo, il suo libro più bello, intramontabile: Lettera a Olga (Edizioni Santi Quaranta di Treviso). Soltanto le Lettere dal carcere di Gramsci posseggono la stessa forza travolgente e commovente, sì commovente perché a leggerle sembra che l’autore le scriva da un “buen retiro” nella ridente e idilliaca campagna ceca dove si intrattiene in un periodo di “rieducazione”. La realtà era ben diversa, il carcere era spietato, teso a spezzare la dignità dell’uomo. In queste lettere – «l’unica occasione che ho di scrivere» – si delinea una ricerca spirituale, che era già affiorata nella forte tensione esistenzialista dei suoi drammi, giocati all’interno del teatro dell’assurdo (e niente era più assurdo che essere passati da Hitler a Stalin), come si percepisce da uno dei più intensi incipit: “Cara Olga, è chiaro forse a questo punto che essere gettati nell’origine dell’Essere e essere gettati nel mondo non sono due costanti separate e indipendenti”. La grandezza della scrittura praghese, da Rilke a Kafka, da Hasek a Havel, è appunto nel riconoscimento che non c’è scampo “da quel costante appello alla trascendenza, da quell’esortarci a rivolgerci alla nostra origine e al nostro scopo”.

Uscito di carcere Havel, impegnato nel movimento della dissidenza, ma costretto al silenzio, preparò quella che fu la “Rivoluzione di velluto” del ’89 e successivamente il “Divorzio di velluto” tra la Repubblica Ceca e quella slovacca (uno degli episodi più interessanti e civili della storia europea). Divenne l’icona del nuovo corso con il suo decennio da presidente al “Castello”, nella reggia – quella di Rodolfo II, trasformata nella centrale del potere stalinista. In questo periodo Havel tenne un diario, (in italiano parzialmente pubblicato dall’editore Santi Quaranta con titolo Un uomo al Castello), in cui troviamo, insieme con una intervista che è la più preziosa e intensa biografia dell’autore, fogli di diario di straordinaria potenza, che costituiscono in nuce la sua estetica e la sua etica: «Qualcuno forse si meraviglierà perché in questo libro salto da un periodo all’altro. È esattamente lo stesso motivo per cui lo fa il drammaturgo e ancor più il romanziere: tutte le cose sono in relazione fra loro; qualsiasi cosa di un periodo fa riferimento ad un altro precedente o successivo; tutto è in qualche modo reciprocamente intrecciato e uno dei modi per toccare la trama nascosta della vita è il collage, che combina cose apparentemente non correlate in modo che alla fine le interrelazioni e il loro vero significato emergano meglio di quanto possa fare una cronologia meccanica o un altro principio di successione temporale che sopprime la casualità. Almeno questa è la mia intenzione». Una meditazione che spiega perché Havel sia uno dei protagonisti della cultura mitteleuropea del nostro tempo.

* Professore ordinario di Storia delle letteratura tedesca all’Università di Roma 3

 

 

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