di Diletta Paoletti

Ad oltre una settimana dal “no” espresso da David Cameron al Consiglio europeo in merito alla riforma dei Trattati, proviamo ad interrogarci sulle ragioni di questo (prevedibilissimo) strappo, che continua, eccome, a far discutere (sul Financial Times i laburisti hanno puntato il dito contro quello che definiscono un atto di “vandalismo economico”).

Il Regno Unito, si sa, non è mai stato un paese acceso da entusiasmi “europeisti”. Forte della rete rappresentata dal Commonwealth e della “special relationship” con i cugini d’oltreoceano, ha sempre investito poco sulla casa comune europea, da quando – nel lontano 1973 – vi entrò a far parte. E, pochi giorni fa, la rottura è arrivata: durante il convulso vertice europeo dell’8 e del 9 dicembre scorsi, David Cameron ha aperto (con coraggio o con imprudenza, è presto per dirlo) una ferita difficilmente sanabile. A provocarla, il no alla neonata “Unione del rigore”, impersonata da Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. L’asse franco-tedesco, infatti, è riuscito, dopo estenuanti trattative durate notti intere, nell’intento di far accettare a 26 Stati una nuova disciplina fiscale, studiata per avere bilanci più sani rispetto a quelli che hanno condotto l’Europa ad un passo dall’implosione. 26 su 27, appunto, perché, alla fine dei giochi, solo la Gran Bretagna ha deciso di tenersi fuori.

Lungi dall’essere contingenza del momento, lo strappo ha origini lontane nel tempo. Non è solo la Manica, infatti, a segnare la distanza tra il Regno Unito ed il resto d’Europa: in più occasioni il rapporto tra Londra e i partner europei è stato burrascoso. «La vita politica britannica è stata caratterizzata da fortissime polemiche sulla natura del legame tra la Gran Bretagna e il continente», spiega Mark Gilbert, storico british e autore dell’illuminante volume “Storia e politica dell’integrazione europea”. «Ignorare o minimizzare la portata di questa crisi di identità politica (perché è di questo che si tratta) sarebbe, per qualsiasi storico inglese, una falsificazione del significato dell’integrazione europea».

Il peccato originale risale addirittura ai tempi della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, istituita nel 1951. Entrarvi a far parte avrebbe significato per il Regno unito (allora maggiore produttore nel settore carbosiderurgico) la possibilità di agire da primus inter pares e influenzare le costituenda costruzione europea dall’interno. E invece, spaventata dalla cessione di sovranità prevista dal progetto (l’Alta autorità Ceca era configurata come organismo sopranazionale), l’Inghilterra si tenne prudentemente fuori dal gioco, perdendo una grande opportunità. In molti vedono in questo “stare in panchina” (di ieri) l’origine di tutti i mali (di oggi): da quel momento invidia e rabbia avrebbero preso il posto di cooperazione e coordinamento.

E poi, la moneta: gli inglesi dell’Euro non ne hanno mai voluto sapere (non sono i soli: dei 27 paesi dell’Unione, l’Euro è la valuta ufficiale di 17 stati) e mai si sono convinti ad abbandonare la cara vecchia Sterlina. Già dai tempi del Sistema monetario europeo (‘79) – embrione della politica monetaria comune, una sorta di banda di fluttuazione per legare tra loro le valute europee – il Regno Unito non si fece coinvolgere. La moneta? Simbolo e sede di troppa sovranità per poter essere ceduta ad un’Europa in costruzione, così ragionava una recalcitrante ed (euro)scettica Gran Bretagna. Dopo timidi tentativi – durante l’epoca di un possibilista Tony Blair si pensò addirittura ad un referendum popolare per entrare nell’Euro, idea che ha poi finito per impantanarsi miseramente nelle secche del più generale fallimento del trattato costituzionale – gli inglesi non si sono mai decisi.

Moneta a parte, numerosi sono stati i momenti poco idilliaci tra Londra e Bruxelles, a partire dal “I want my money back” della sig.ra Thatcher (allora erano questioni di budget a preoccupare gli inglesi: il Regno Unito finanziava la Politica agricola comune senza avvantaggiarsene più di tanto). Ma mai come ora la stessa membership è stata così duramente osteggiata. Complici le incertezze e i ritardi dall’Ue nella gestione dell’attuale crisi economico-finanziaria. Fino all’ultimo Consiglio europeo, con la richiesta inglese (inaccettabile per gli altri stati) di condizionare al criterio dell’unanimità ogni decisione relativa a regole più stringenti per la finanza (dove unanimità sta – di fatto – per possibilità di veto). L’obiettivo? Lasciare mano libera al mercato dei servizi finanziari della City di Londra. Nella difficile decisione di Cameron, ha di certo pesato, e non poco, la rivolta – oltre che della gente comune – di molti parlamentari, anche tories, ossia della sua stessa maggioranza. Ecco allora che la scelta dell’inquilino di Downing Street sembra essere – a dispetto delle apparenze – la meno traumatica: se avesse accettato la nuova regulation sulla City, la rivolta dei conservatori gli avrebbe imposto il referendum niente meno che sull’appartenenza stessa all’Ue. Referendum dall’esito scontato.

In fondo, niente (o poco) sembra essere cambiato dall’epoca dello “splendido isolamento” di vittoriana memoria, quando un’Inghilterra “padrona del mondo” si teneva prudentemente distante dai vischiosi affari europei. Tutto cambia, nulla cambia, insomma. E gli inglesi sono sempre quelli che – con un misto di nazionalismo e superbia (sono e si sentono tuttora gli eredi del British Empire) – scrutando l’orizzonte ripetono a se stessi e al mondo: “nebbia sulla Manica, il Continente è isolato”.

 

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