di Fabio Polese

A cavaliere tra il novembre e il dicembre scorso, dopo più di mezzo secolo, il più alto rappresentante della politica estera americana – Hilary Clinton – si è recato in Myanmar. Ad annunciare questa storica visita era stato Barack Obama in un summit sull’est asiatico, in Indonesia: in quell’occasione il presidente americano aveva dichiarato che la visita sarebbe dovuta servire per incoraggiare le riforme democratiche della ex Birmania e per consolidare i rapporti tra Stati Uniti e Myanmar.
Durante i suoi tre giorni di visita, Hilary Clinton ha incontrato il presidente Thein Sein, altri esponenti del parlamento birmano e la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi. «Sono qui oggi perché il presidente Obama e io siamo soddisfatti delle riforme avviate da questo governo» ha detto il segretario di Stato americano. Questo incontro si presta a molteplici interpretazioni: secondo alcuni rappresenta un importante passo verso la democratizzazione della ex Birmania, mentre per altri rientra nella strategia statunitense per aumentare l’influenza americana nell’Asia Orientale e nel Pacifico.
Per capirne qualcosa di più occorre però fare un passo indietro. La Birmania, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1948, avrebbe dovuto iniziare un nuovo corso con il governo post-coloniale guidato da Aung San – padre del premio nobel per la pace del 1991, Aung San Suu Kyi – che firmò, tra l’altro, in accordo con i capi delle comunità Shan, Chin, Kachin e altre etnie, il Trattato di Planglogn con cui veniva offerta a ciascun gruppo la possibilità di scegliere autonomamente il loro destino politico entro dieci anni. Subito dopo, però, un colpo di stato pose immediatamente fine al nuovo governo post-coloniale; Aung San venne ucciso e il trattato da poco firmato diventò inesistente. Dal 1962 al 1988 la dittatura militare di stampo socialista del generale Ne Win è passata attraverso l’accentramento del potere in un unico partito, la nazionalizzazione delle imprese e la soppressione della stampa non allineata. Da allora il governo militare intraprende quella che viene chiamata la «Via Birmana al Socialismo», contribuendo ad una drammatica crisi economica e sociale. La popolazione del Myanmar sopravvive a fatica. E le diversità culturali, religiose e politiche vengono brutalmente annullate.
In questi anni, i militari hanno più volte represso violentemente sia i civili che manifestavano per chiedere maggiore libertà e diritti, sia le numerose etnie che, pretendendo una propria autonomia come gli era stato promesso, imbracciano le armi. Ancora adesso, dopo più di sessant’anni,  nelle aree di confine, nonostante si parli continuamente di negoziati per un cessate un fuoco con i diversi gruppi etnici, l’esercito birmano sta aumentando la sua presenza, gli avamposti militari vengono riforniti e gli scontri con le etnie Karen e Kachin, sono all’ordine del giorno. Nel tempo, la sete di denaro ha permesso il trasferimento di molti beni pubblici agli stessi generali al potere, portando così la Birmania ad essere uno degli stati al mondo con le più basse condizioni di vita della popolazione. E ancora morte, stupri sistematici, schiavizzazioni e distruzioni, hanno fatto diventare la Birmania il paese con il numero più alto di rifugiati.
Nel novembre del 2010 – per la prima volta dopo vent’anni – la popolazione birmana, si è recata alle urne; nonostante fosse un apparente evento storico, dentro e fuori dal paese si aveva la sensazione che si trattasse solamente una farsa. La non partecipazione della Lega Nazionale per la Democrazia e del premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, che al tempo era ancora costretta agli arresti domiciliari, svuotarono di significato la tornata elettorale. Il partito delegato dai militari, nonostante le accuse di elezioni manipolate, dichiarò di aver vinto con circa l’80% dei voti, facendo così crollare le speranze di chi credeva che queste votazioni fossero l’inizio – non certo perfetto – del cambiamento del paese. Dopo le elezioni, qualche passo, sembra che sia stato fatto. Aung San Suu Kyi è stata liberata e il 19 agosto, ha incontrato ufficialmente il presidente Thein Sein. Il 30 settembre, il governo birmano ha deciso di sospendere per almeno cinque anni la costruzione della diga idroelettrica cinese sul fiume Irriwaddy e, sempre il presidente Thein Sein, il 12 ottobre, ha concesso la grazia a molti prigionieri, tra cui anche duecento prigionieri politici. E ancora, il ministro per gli affari interni, il tenente generale Ko Ko, ha presentato un disegno di legge per permettere le proteste di piazza che, seppur con delle limitazioni, è stato recentemente approvato.
A questo punto però, è doveroso porci qualche domanda. Possono davvero bastare queste piccole cose per chiudere gli occhi su quello che in più di mezzo secolo la giunta militare birmana ha fatto alla popolazione e alle diverse etnie ancora in lotta? Gli Stati Uniti, che fino ad ora avevano optato per la “linea dura” delle sanzioni, che interessi hanno a riallacciare i rapporti con il Myanmar? Sembra evidente che gli USA siano interessati alla ripresa dei rapporti con il Myanmar sia per rafforzare le relazioni economiche commerciali con i membri dell’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale – ASEAN –, sia per favorire un insediamento di forze militari nell’area.
Il 12 novembre scorso, in occasione del vertice dell’Asia-Pacific Economic Cooperation – APEC – di Honolulu, è stato proposto l’ampliamento del Trans Pacific Partnership – TTP – che mira alla creazione di un area di libero mercato nella zona dell’Asia-Pacifico. Barack Obama, che vorrebbe un ridimensionamento della continua crescita economica della Repubblica Popolare Cinese – divisa tra falce e capitale – ha dichiarato: «La regione Asia-Pacifico è assolutamente cruciale per la crescita economica degli Stati Uniti. Pensiamo che questa sia una priorità». Una priorità che sembra abbia fatto cambiare strategia alla politica americana ma che potrebbe infastidire non poco la Cina, da sempre partner economico e non solo, del paese dei generali capitalisti.

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