di Tommaso Milani

Dando una rapida scorsa ai titoli dei quotidiani degli ultimi trenta o quaranta giorni, se ne ricava l’impressione che mutamenti profondi siano occorsi sulla scena politica italiana. La caduta del governo Berlusconi IV e la nascita del governo Monti costituiscono, in effetti, due tappe drammatiche nelle vicende della cosiddetta Seconda Repubblica. Lo sono per il contesto internazionale in cui tali eventi si collocano, quello di una crisi dei debiti sovrani europei che colpisce anzitutto quei Paesi – Italia inclusa – la cui solidità finanziaria appare dubbia. Lo sono per le modalità con cui si sono svolte, che, pur nel rispetto dello spirito e della lettera della Costituzione, rappresentano un allontanamento dall’idealtipo di sistema bipolare basato sull’alternanza cui l’Italia si era in passato avvicinata. Lo sono, infine, per le conseguenze a lungo termine che potrebbero avere sull’Unione monetaria europea, la cui integrità appare oggi in discussione.
Al cospetto di uno scenario tanto intricato e ricco di incognite, specialisti di vario genere – economisti e giuristi, storici e politologi – hanno analizzato la congiuntura presente servendosi delle rispettive metodologie, alimentando un dibattito fattosi intenso e ricco di contenuti. Se nessun approccio, da solo, può offrire una spiegazione davvero esaustiva, che sintetizzi la totalità dei fattori che hanno concorso alla caduta del governo Berlusconi, ognuno di essi ha però il merito di mettere a fuoco uno o più aspetti che sfuggono da altre angolazioni. All’interno di questa polifonia disciplinare, viene da domandarsi se i classici della storia del pensiero politico possano offrire qualche chiave di lettura inedita.
Il capitolo XXV del “Principe” di Niccolò Machiavelli rappresenta, a mio avviso, una straordinaria miniera di spunti e suggestioni in grado di gettare nuova luce sul presente. Si tratta di un capitolo cruciale nell’economia del trattato nonché di un eccellente viatico all’intera opera dell’autore, giacché vi compaiono temi fondamentali, a cominciare da quel rapporto fra virtù e fortuna le cui molteplici sfaccettature – come notato da un interprete non troppo letto del Machiavelli, Ernst Cassirer – rendono il fiorentino forse un precursore, ma non certo il fondatore della moderna scienza politica, caratterizzandosi quest’ultima per la distinzione tra fatti e valori e per l’espulsione dell’elemento “mitico” dal campo della riflessione politologica.
Tali precisazioni aiutano a comprendere l’intento del Machiavelli, non certo descrittivo o esplicativo bensì prescrittivo, volto a rinfocolare, laddove presenti, quelle doti caratteriali e umane che distinguono il buon Principe dal semplice detentore del potere politico. E non è un caso, del resto, che il capitolo si apra con una celebre difesa del libero arbitrio, ossia della capacità di operare concretamente e dinamicamente all’interno del divenire storico, sia pure in presenza – diremmo oggi – di vincoli strutturali e condizionamenti esterni: “… perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso di noi” (paragrafo II). La fortuna, sostiene il segretario, è paragonabile “a uno di questi fiumi rovinosi che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievano da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro sanza potervi in alcuna parte obstare”.
La natura irruenta e irrefrenabile della sorte, tuttavia, non può offrire un pretesto all’inazione umana. Al contrario, sono proprio la scarsa prevedibilità degli eventi, l’indeterminatezza del futuro, la fondamentale condizione di incertezza metafisica – per utilizzare un’espressione cara a Ortega y Gasset – che contraddistingue il rapporto degli uomini con il proprio tempo, a rendere indispensabile che si adottino, “quando sono tempi quieti”, “provvedimenti e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso”. La fortuna, dopotutto, è meno cieca di quanto in genere si creda: essa si accanisce soprattutto “dove non è ordinata virtù a resisterle”, ad esempio su un territorio come quello italiano, “una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: perché s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non avrebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta” (paragrafo III). La virtù machiavelliana sembra qui rievocare e appropriarsi della nozione latina di prudentia, che riunisce al proprio interno i caratteri della saggezza e della precauzione – potremmo dire: della lungimiranza –.
La virtù, nondimeno, non si identifica, né va confusa, con il “respetto”, la cautela, né con la “pazienzia”, l’attendismo (paragrafo V). Sono attitudini, queste, che possono certo appartenere al buon Principe, ma anche rappresentarne il  tallone d’Achille, qualora un brusco mutamento delle circostanze imponga di agire con spregiudicatezza. È la corrispondenza fra la “qualità de’ tempi” e il temperamento del Principe a determinare, in ultima istanza, le possibilità di successo di quest’ultimo. Sarebbe infatti illusorio – argomenta Machiavelli, il cui realismo è ancorato a una visione scettica e disincantata della natura umana – pretendere che il medesimo individuo possa mutare radicalmente la propria indole interiore:“né si trova uomo sì prudente, che si sappi accomodare a questo [il mutamento dei tempi, ndr], sì perché non si può deviare da quello a che la natura l’inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella” (paragrafo VI). Non deve perciò stupire che l’impetuoso pontefice Giulio II, agendo con audacia in un’epoca “conforme a quello suo modo di procedere” (paragrafo VII), abbia raggiunto i suoi scopi. Qualora invece “fussino venuti tempi che fussi bisognato preocedere con respetti” (paragrafo VIII), sarebbe andato incontro al fallimento.
Sarebbe sciocco, oltre che improprio, impoverire la pagina machiavelliana  – così carica di un vigore, vitale nei contenuti quanto limpida nello stile – tentando di farla attecchire schematicamente al presente, in una forzosa ricerca del rimando e dell’analogia che rischierebbe di snaturare il testo. Ma sarebbe altrettanto deprecabile, a mio avviso, non approfittare delle geniali intuizioni del fiorentino per orientarsi nella situazione presente.
Mi limito qui a menzionare tre possibili, e strettamente personali, conclusioni.
Primo: che la crisi economica internazionale abbia colto impreparato il Principe italiano mi pare indubbio. L’assenza di “argini” adeguati – eretti invece in altri Paesi, a cominciare da quella “Magna”, ossia Germania, che Machiavelli cita a mo’ di esempio – è emersa con tutta evidenza nel luglio scorso, quando, dopo mesi di dichiarazioni rassicuranti e distensive, finalizzate a minimizzare il rischio del ‘contagio’, l’esecutivo si è affrettato ad adottare provvedimenti emergenziali, volti a rassicurare gli investitori ma che invece ottenevano il paradossale effetto di accrescerne pretese e aspettative. Non è quindi eccessivo paragonare l’Italia a una “campagna senza riparo” anche per un difetto di “virtù”, che coinvolge un’intera classe dirigente.
Secondo: a fronte di responsabilità tanto vaste e condivise, la spasmodica ricerca di alibi e recriminazioni, soprattutto da parte di coloro a quali, sino a poche settimane fa, è spettato il pur gravoso onere di governare, appare risibile e tutto sommato irritante. Alla luce della gravità della situazione odierna, è ben magra consolazione sottolineare che la crisi economica ha origini al di fuori dell’Italia o rivendicare di avere fatto ‘tutto il possibile’ per prevenire il peggio. Se la “fortuna” non ha certo sostenuto l’Italia nell’ultimo biennio, è parimenti vero che esiste una “metà delle azioni” di cui la classe politica dovrebbe rendere conto: non, si badi, per appagare gli istinti forcaioli e colpevolisti di una parte dell’opinione pubblica, ma come laico riconoscimento del proprio fallimento, della propria incapacità di entrare in sintonia con le mutate esigenze del quadro internazionale.
Terzo: Machiavelli ci induce a ripensare criticamente la figura di Silvio Berlusconi e del suo ruolo nella recente storia repubblicana. Un uomo in cui non pochi avevano scorto un possibile Giulio II: un ambizioso visionario capace di imprimere una svolta modernizzatrice al sistema politico; un imprenditore in grado di riprodurre all’interno della macchina statale la logica efficientistica e produttivistica che ne aveva contraddistinto i successi in campo privato; un decisionista incline a spezzare i consolidati assetti di potere che da troppo tempo soffocavano la vita istituzionale italiana.
Ebbene, è curioso – ma anche rivelatore – che Berlusconi si sia dimesso al termine di una logorante battaglia parlamentare figlia anche della sua incapacità di decidere, di sottrarsi ai diktat e ai veti incrociati imposti dai gruppi con cui aveva scelto di puntellare il suo traballante governo. Berlusconi, soprattutto dopo la rottura con Fini, ha mostrato un “respetto” e una “pazienzia” davvero unici nell’esercitare il proprio ruolo di Presidente del Consiglio, rinviando sine die l’adozione di misure impopolari e mostrandosi invece assai disponibile ad assecondare le esigenze paraclientelari dal “nuovo schieramento posticcio e raccogliticcio” – come lo ha brillantemente definito Giuseppe Balistreri – che lo sosteneva.  E così, al mutare della “qualità dei tempi”, quel fiume che non aveva saputo efficacemente incanalare ha finito per travolgerlo, trascinando con sé i detriti di una sempre promessa e mai realizzata rivoluzione liberale.