di Francesco Coppola
Blocchi stradali, cortei e proteste dal Nord al Sud, moti di rivolta, categorie professionali sul piede di guerra, minacce di scioperi e serrate. Quanto sta accadendo in Italia, in un crescendo che non promette nulla di buono, che sempre più evoca una deriva sociale di tipo greco, si presta a molteplici interpretazioni.
Sul piano storico, il ribellismo a sfondo anarcoide, affidato alle parole d’ordine di improvvisati agitatori e indirizzato polemicamente contro lo Stato e la classe politica, incurante dei diritti elementari dei cittadini e sostenuto da rivendicazioni demagogiche e irrealistiche, sordo alle regole della convivenza civile e irrispettoso del principio di legalità, spesso inquinato dall’estremismo politico e dalla criminalità organizzata, è un tratto ricorrente e più volte sperimentato nella vita pubblica italiana. Talvolta con scoppi di violenza che hanno fatto temere per la tenuta dell’ordine pubblico e della stessa democrazia repubblicana: dal separatismo siciliano nell’immediato dopoguerra alle rivolte vere e proprie di Reggio Calabria e de L’Aquila nei primi anni Settanta.
Ma stavolta sembra diverso. L’innesto odierno delle proteste è rappresentato da una crisi economica senza precedenti, che sta mettendo in ginocchio interi comparti produttivi e che suona come una giustificazione sufficiente per quella che viene presentata dai protagonisti delle diverse agitazioni come una lotta per la propria sopravvivenza. Una crisi che, proprio perché grave generalizzata e profonda, andrebbe affrontata con una prospettiva globale e con spirito solidale, dividendo fra tutti sacrifici e responsabilità, mentre pare stiano prevalendo la logica del “si salvi chi può”, quella del particolarismo più esasperato e quella della forza organizzata.
La vera novità è pero rappresentata dal clima politico-istituzionale, largamente inedito rispetto al passato, nel quale si inseriscono i sommovimenti in corso.
Accade, per cominciare, che non ci siano più partiti o forze sociali organizzate in grado di intercettare i malumori e le rivendicazioni che nascono sul territorio o dai diversi settori della società. Mancando filtri e luoghi di mediazione istituzionali – se si eccettua un governo sempre più percepito dall’opinione pubblica come privo di una sua effettiva base di legittimità politica, che starebbe agendo in una chiave percepita dai destinatari come eccessivamente rigorista e punitiva – gli interessi settoriali e corporativi tendono perciò ad organizzarsi e a esprimersi in modo autonomo, secondo una logica meramente rivendicativa e conflittuale che impedisce qualunque confronto costruttivo tra le parti e qualunque sintesi nel nome di un interesse generale che nessuno più difende o tiene in considerazione.
Con la politica nazionale fuori gioco, a partire da un Parlamento largamente screditato agli occhi dei cittadini e che sembra aver rinunciato al suo ruolo d’indirizzo, il peso di misurarsi con i diversi fronti di lotta ricade per intero sulle spalle degli amministratori locali, gli unici che possano ancora vantare una qualche credibilità dal punto di vista della rappresentanza politica, una base di consenso effettiva e un qualche potere decisionale. Ma il loro atteggiamento in queste ore, proprio perché vincolati al territorio e agli umori dei loro elettori, è a farsi portavoce, piuttosto che interlocutori o mediatori, dello scontento che sale dal basso nei confronti del potere centrale, è a cavalcare il dissenso in tutte le sue forme. Accentuando così le pulsioni populiste e le spinte disgregative che sono, rispettivamente, la principale matrice e l’effetto più immediato delle attuali proteste.
A complicare la situazione – e a renderla potenzialmente assai pericolosa – c’è poi un dato politico-culturale generale col quale l’Italia deve ormai fare i conti: il venire meno progressivo di quel minimo senso della coesione sociale e della solidarietà – tra classi, ceti e categorie e tra realtà territoriali – senza il quale nessuno comunità politica organizzata può esistere. Dal punto di vista della psicologia collettiva, l’Italia – lasciatasi velocemente alle spalle le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità nazionale – si conferma una realtà ampiamente sfilacciata e divisa al suo interno, attraversata da linee di divisione che non hanno più nulla di ideologico, come nel passato, ma che richiamano piuttosto dati elementari – proposti ormai come in componibili – quali l’appartenenza territoriale o l’interesse economico particolare, l’egoismo dei gruppi o un malinteso senso dell’autonomismo e del localismo.
Una tendenza al separatismo che dura da anni, che la predicazione leghista ha contribuito ad accentuare, che nessuna tra le grandi forze politiche organizzate ha contrastato a dovere, semmai assecondato dietro la parola d’ordine del federalismo acriticamente accettata, e che ora si è trasformata in sentimento diffuso e radicato da un capo all’altro della Penisola. Dal Veneto alla Sicilia ogni realtà territoriale ormai pensa per sé, sostenendo di essere vittima di un potere centralistico e ottuso dal quale è necessario difendersi con ogni mezzo. Non c’è categoria produttiva o associazione professionale che a sua volta non si dichiari pronta alle barricate pur di salvaguardare i propri interessi, anche a scapito del prossimo.
Viene da chiedersi, se questo è il quadro, quanto potrà resistere il Paese al sommarsi di queste spinte centrifughe. Spetterebbe alla politica contenerle e indirizzarle all’insegno di un disegno comune. Toccherebbe ai partiti a vocazione nazionale e universalistica trovare convergenze e soluzioni improntate alla ragionevolezza e alla reciproca convenienza. Ma la politica latita, vittima della sua stessa inconcludenza e della sua mancanza di visione strategica, mentre i partiti sono attualmente impegnati in lotte intestine e in una battaglia per la sopravvivenza dagli esiti peraltro incerti. Prepariamoci dunque a mesi di caos e confusione, almeno sino a che non si sarà capito che da un tale clima di scontro, da questa lotta di tutti contro tutti, nessuno avrà da guadagnare e tutti perderanno qualcosa.
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