di Alessandro Campi
Verrebbe da dire, a costo d’apparire irrispettosi, che il Presidente Napolitano – parlando a Bologna nell’occasione del conferimento della laurea honoris causa in Relazioni internazionali e diplomatiche – non ha detto altro che banalità e cose ovvie. «Dei partiti, come della politica – ha spiegato al corpo docente e agli studenti – bisogna avere una visione non demoniaca, ma razionale e realistica. Tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l’estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo ed è fatale, conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà».
In realtà, nel clima di smarrimento e confusione che attanaglia l’Italia, le sue semplici e misurate parole sono suonate, ancora una volta, opportune e profondamente vere, come dettate da una saggezza che affonda nell’esperienza, da una passione civile alimentata da un profondo senso del dovere e da una speranza che guarda al futuro comune degli italiani. Soprattutto sono suonate come una risposta razionale e rigorosa ai suoi improvvidi contestatori, mossi nientemeno che da un’indignazione tanto universale nelle sue aspirazioni quanto vaga nei suoi intendimenti.
Se la politica, seppure imperfetta, resta un’arte nobile e necessaria – come il Capo dello Stato ha sostenuto ricordando l’esperienza di Beniamino Andreatta, esempio non lontano di politico guidato da prudenza, rigore e spirito ideale applicati al governo della cosa pubblica – l’antipolitica, il dissenso urlato, l’invettiva contro l’avversario e l’equiparazione del potere a violenza e sopruso rappresentano invece una retorica spesso sterile e senza costrutto. Vent’anni di storia, passati chi a denunciare il teatrino della politica, da sostituire con la fantasmagoria del capo che decide per tutti, chi a immaginare una democrazia diretta e assoluta, priva di mediazioni istituzionali, dovrebbero avercelo insegnato. La demagogia populista della destra e il moralismo intransigente della sinistra, che sono stati l’alimento ideologico della Seconda Repubblica, hanno forse intercettato malumori profondi e ansie persino legittime, ma certo non hanno contribuito a radicare una visione della politica costruttiva o minimamente innovativa, e comunque all’altezza dei problemi che solo quest’ultima, purché sorretta da capacità progettuale e da un minimo senso etico, può cercare di risolvere.
Il discredito della politica, che in Italia è reale e profondo e da attribuire per intero alle manchevolezze dei suoi attori in tutti questi anni, non si supera negandola alla radice o equiparandola ad un’attività per natura sporca e inconcludente, ma ripristinandone le regole di funzionamento e la missione primaria. Tantomeno si può tentare di guarirne i mali ricorrendo a scorciatoie illusorie. «Non si prenda l’abbaglio – ha sostenuto ancora Napolitano – di ritenere che di fronte alla crisi dei partiti la soluzione sia offerta dal miracolo delle nuove tecnologie informatiche, dall’avvento della Rete, che fornisce accessi preziosi e stimoli all’aggregazione che non sono sostitutivi dei partiti».
La via d’uscita per ripristinare un minimo vincolo di fiducia e leale collaborazione tra elettori ed eletti, per non sganciare la pratica del governo democratico dall’esercizio attivo della libertà, non risiede nel movimentismo e nell’anarchia di parola, in un’immediatezza che sconfina nel semplicismo e che rappresenta una caricatura della vera partecipazione, ma nel ritorno a modalità d’azione e aggregazione politica all’insegna della trasparenza, dell’impegno, della moralità e della competenza. Se non c’è democrazia senza partiti e senza una qualche forma di rappresentanza istituzionale il problema allora è restituire ai primi – divenuti nella realtà italiana entità vaghe e virtuali – il loro ruolo di catalizzatori degli interessi organizzati, di filtro tra la società e le istituzioni, di promotori di un personale politico e di governo caratterizzato dal merito, dal decoro e dal senso civico. Uno sforzo riformatore e restaurativo che per riuscire presuppone una politica non disancorata dalle idee e dalla cultura.
Questa dunque la bella e salutare lezione di Napolitano a difesa della politica e con essa della democrazia e della libertà, che potrebbe persino apparire paradossale visto che lo si accusa di aver fatto nascere un governo degli ottimati che avrebbe certificato la sospensione della politica e messo in mora la volontà sovrana del popolo nel nome dell’efficientismo tecnico–burocratico. Ma il paradosso lo ha determinato, in realtà, la pessima condotta di un’intera classe politica, che nell’arco di un ventennio semplicemente non ha voluto saperne di cambiare il proprio modo di fare, di definire nuove regole per il buon funzionamento del nostro sistema politico, finendo così con l’autoaffondarsi e con lo svilirsi agli occhi dei cittadini, sino a costringere il Presidente della Repubblica ad una soluzione istituzionale d’emergenza che lui stesso –come si ricava dal suo discorso bolognese – ritiene necessario superare al più presto.
La porta per un cambiamento, seppure in extremis e sotto la costrizione di una congiuntura economica che ha costretto il Paese ad un inedito interregnum costituzionale, non è infatti del tutto chiusa per la politica italiana. Prima di essere nuovamente spazzata via, e di lasciare il Paese senza una guida legittimata dal voto o a rischio di qualche pericolosa avventura, la nostra classe politica ha ora l’occasione per riformare se stessa e per riguadagnare consenso e prestigio. Se non lo farà per senso di responsabilità, che lo faccia almeno per spirito di sopravvivenza.
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