di Manlio Lilli
All’epilogo della seconda Repubblica, in una fase di incertezza sul futuro politico che preoccupa non meno della contingenza del presente in campo economico, l’analisi degli anni conclusivi della prima Repubblica è un’operazione che guarda dichiaratamente al passato senza dimenticare un coeup d’oeil all’Italia che verrà. Tanto più se il focus è posto su uno scontro epocale. Quello tra il Psi di Bettino Craxi e il Pci di Enrico Berlinguer. Con, sullo sfondo, in un continuo oscillamento tra la scena e il retro, di un terzo grande protagonista, la Democrazia Cristiana, in un’indagine che ha l’indiscusso merito, facendo propria la concezione polibiana, ma anche tucididea, della storia pragmatica, di basarsi sulle testimonianze dei protagonisti del tempo raccontato. Senza filtri, senza intermediari. Attraverso non soltanto tre gruppi di testimonianze di politici socialisti e comunisti di allora, ma anche tredici saggi di storici che, seppur di chiaro orientamento socialista, non hanno in alcun modo abiurato all’obiettività richiesta.
Addentrarsi tra le pagine della raccolta curata da Gennaro Acquaviva e Marco Gervasoni, Socialisti e comunisti negli anni di Craxi (Marsilio, pp. 398, euro 29,00), vuol dire ripercorrere anni intensi, dominati da partiti con strutture assai solide e con leaderschip indiscusse, fondate da una capacità aggregativa straordinaria, forse anche perché realmente capaci di parlare alle masse, di farle sognare davvero. Uomini al vertice di una piramide perché declinavano continuamente, in maniera contrapposta, ma ammirevolmente reiterata, il loro progetto.
I diversi contributi consentono di concentrare l’attenzione su una fase della politica italiana storica. Quella nella quale l’alleanza tra il Psi e la Dc diede avvio ad una serie di governi nei quali il rassemblement era dato da uno “stare insieme” di partiti con orientamenti ed interessi molto differenti tra loro. Questa nuova costruzione politica, in un certo qual modo causata dall’incapacità della Dc e dei partiti laici minori di raggiungere la maggioranza, trovò sul fronte contrapposto il partito tradizionalmente “forte” della sinistra italiana. Quel Pci che, oltre ad essere radicato nel movimento sindacale, poteva vantare un buon consenso sia nella società che nelle istituzioni. Sono gli anni nei quali l’inflazione scende dal 12,30% al 5,20% e lo sviluppo dell’economia italiana vede sia la crescita dei salari, sia il momentaneo sorpasso del reddito nazionale e di quello pro-capite della Gran Bretagna, diventando il quinto paese industriale avanzato del mondo. Ma sono anche gli anni nei quali due indicatori importanti di cattivo governo economico, il debito pubblico e il rapporto tra debito pubblico e Pil, si manifestano in maniera prepotente. Sarebbe però ingeneroso liquidare il “duello a sinistra” con questi dati, riducendo il sogno socialista ad un fallimento.
Il tentativo craxiano di far uscire la sinistra dall’angolo e quindi di affrancare i socialisti dai comunisti, rivendicando per loro un ruolo di primo piano, era ambizioso ma tutt’altro che disgiunto dalla crescita del Paese. Erano lontani, e forse imprevisti, gli eccessi, le spettacolarizzazioni, delle quali le scenografie per le assemblee nazionali e i congressi dell’architetto Panseca furono la rappresentazione più evidente. Attraverso decisioni dichiaratamente politiche, preparate da una revisione ideologica, ma anche un’operazione di restyling che comprendeva un rapporto nuovo rispetto al passato con i mass media, Craxi si adoperò per una scalata interrotta drammaticamente. Dall’agosto del 1978, dal celebre saggio pubblicato sull’Espresso, alla vittoria elettorale del 1983, alla riduzione e quindi, nel 1985, all’eliminazione della falce e il martello dal simbolo del partito, fino al tentativo annessionistico del Pds di Occhetto.
Ma quell’“unità socialista” a lungo coltivata fu impossibile. Nel declino socialista, prima, e nella successiva diaspora, poi, gli eredi di Berlinguer ed Occhetto vollero trovare un riscatto, una riparazione postuma della loro “diversità”. Dal collasso dei partiti, generato da tangentopoli, tra il 1993 e il 1996, nacque la necessità di ricorrere alle salde certezze offerte dai governi tecnici. Avrebbero dovuto costituire il trait d’union tra la vecchia, cattiva, politica e quella, nuova, buona.
Dopo un quindicennio di sogni mai realizzati l’emergenza ha richiesto il ritorno ad un esecutivo ancora di tecnici. Da allora é mutata la geografia della politica, si è passati ad un differente sistema elettorale. Insomma sono state rimosse le principali cause del declino della politica passata. Ma i risultati non sembrano cambiati.
Il libro non promette alcuna soluzione al problema. Ma almeno aiuta a capire come non aggravarlo. Di questi tempi, non é poco.
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