di Antonio G. Balistreri
Uno stato di complessione debole, un edificio statale la cui costruzione si è rivelata traballante: è questo che è stato a vario modo ripetuto e che non poteva sfuggire ai diversi osservatori delle cose italiane. Ma quali sono le caratteristiche di questa debolezza? Quali le cause, quali i rimedi proposti o tentati e che cosa si può o si deve ancora fare? Le interpretazioni sono tante e si dividono a seconda dell’ottica scelta dagli osservatori. Nel sul ultimo libro, Italia: una società senza Stato?, il giurista Sabino Cassese segue i provvedimenti adottati all’indomani dell’Unità, per capire che cosa è stato fatto od omesso in relazione alla costruzione dello Stato nazionale. Quindi si preoccupa di mettere in luce le costanti che definiscono il problema della mancata costruzione di una compagine statale efficiente.
Se risaliamo all’origine, ci si presenta un fatto incontestabile: il nuovo Stato italiano sorto dal Risorgimento non ebbe una sua fondazione specifica. Si cercò in tutti i modi di assorbire la nuova realtà politica nell’ambito della continuità con lo Stato sabaudo. Cambiavano le dimensioni e i problemi dello Stato, ma le strutture e i principi di fondo dovevano rimanere gli stessi. L’Italia unita non si dette una costituzione, ma ereditò lo Statuto albertino. In questo modo, ci sembra di poter dire che cercheremmo invano all’origine, e cioè al momento dell’unificazione, qualcosa come “la nascita dello Stato italiano”. Nasceva una nuova entità politica, l’Italia (quindi nasceva effettivamente qualcosa di nuovo), ma non ci fu la costruzione di un vero e proprio Stato italiano, di qualcosa cioè che non fosse il semplice prolungamento e adattamento di ciò che c’era prima. Di italiano dunque non avemmo «né nazione né Stato», per dirla con il titolo un altro libretto dello storico Emilio Gentile. Il Piemonte fu eccessivamente timoroso che la nuova realtà politica gli sfuggisse di mano, e quindi fece di tutto per tenersela la più stretta possibile, dandole cioè il suo Statuto, le sue leggi, la sua architettura istituzionale (dapprima anche la sua capitale). La nazione, se c’era, doveva sentirsi paga di ritrovarsi unita nelle mani della monarchia Sabauda, ma non doveva reclamare per sé una nuova costruzione politica. Si doveva evitare cioè che il potere trasmigrasse nelle mani della nazione (cioè delle varie élites regionali che si riconoscevano nello spirito del Risorgimento), anche se questo, contemperato con lo spirito dell’osservanza monarchica, fu quello che poi realmente avvenne. Stupisce però, come Cassese rivela, che venisse posposta la costruzione di un apparato di organi e regole amministrative omogenee alla formazione di un mercato comune nazionale.
Così com’era, lo Statuto albertino era difficilmente in grado di regolare la vita politica del nuovo stato italiano, ma presentava sufficienti vaghezze per poterlo adottare a questa o all’altra situazione e questo gli consentì di sopravvivere fino alla fine della monarchia. Con la nuova Costituzione repubblicana si trattava di dare allo Stato un fondamento certo. Invece, proprio su questo punto essa «ha mostrato la corda». Risulta soprattutto insufficiente il sistema dei checks and balances. Ma un limite grosso fu che la Costituzione non ebbe seguito in quei punti il cui completamento veniva lasciato agli anni successivi. La sua attuazione fu diluita nel tempo. Alcune prescrizioni poi furono lasciate inattuate. Tra ritardi nell’attuazione ed in attuazioni, la Costituzione risulta “sfigurata”.Tuttavia, ci sarebbe da chiedersi se non siano state proprio le pretese eccessive o certe formulazioni appositamente lasciate nel vago a fare della nostra una Costituzione incompiuta. Di certo, un limite della nostra costituzione va individuato nella mancata introduzione di meccanismi che salvaguardassero la stabilità degli esecutivi (uno dei più gravi problemi, questo, del nostro sistema politico).
Le altre problematiche che evidenziano la debolezza dello Stato italiano sono le seguenti.
1. Vi è stata scollatura tra Stato e società. Questo dovrebbe significare che gli italiani non hanno trovato lo Stato dove avrebbero dovuto trovarlo. Cassese preferisce invece soffermarsi su un altro aspetto, quello cioè la scarsa consistenza del corpo elettorale italiano, e di converso quello dell’élite troppo ristretta che per molto tempo ha governato il Paese. Tuttavia, abbiamo avuto il suffragio universale maschile già nel 1912 ed il problema non riguarda certo gli anni della repubblica, che furono anzi anni di intensa partecipazione politica. Ma la partecipazione politica non è una panacea e ci può essere ostilità nei confronti delle istituzioni, e quindi instabilità, anche in presenza di alta partecipazione politica (che in questo caso significa alta conflittualità).
2. Apparentemente in contrasto con il primo punto troviamo la scarsa autonomia dello Stato nei confronti della società. In realtà, lo Stato assente, quello che i cittadini non trovano al momento del bisogno è lo Stato garante del bene comune e dell’interesse universale, mentre quello che essi trovano e che per così dire hanno a portato di mano è lo Stato che si lascia permeare dagli interessi privati e dalle logiche corporative.
3. La generalità dello Stato può essere garantita solo se c’è una classe di funzionari fortemente animata da spirito pubblico di servizio ed altamente competente. In questo, tra i fattori negativi va citata la “meridionalizzazione della funzione pubblica”, forse anche per la mancanza di una delle qualità fondamentale che il funzionario moderno secondo Max Weber deve avere, quello cioè dell’impersonalità.
4. Secondo Cassese va sfatato il mito secondo cui il disamore nei confronti dello Stato sia dovuto tra le altre cose ad un suo eccessivo accentramento. La sua tesi invece è che, se si guarda ad indicatori come la spesa ed il personale della pubblica amministrazione, la periferia ha giocato un ruolo ben più importante di quello che la polemica anticentralistica vuole lasciare credere. In realtà il problema è un altro, e cioè quello della “fuga dallo Stato”. Questa ha avuto sia la forma della concessione di franchigie a certi territori, enti o istituzioni all’interno dello Stato sia quella della creazione del vincolo esterno dell’Italia nei confronti dell’Europa. «Il cosiddetto vincolo esterno costituisce una fuga dallo Stato in quanto lo Stato non trova in se stesso la forza della propria modernizzazione e ricorre all’esterno».
5. Cassese indica come ultimo tratto significativo nella vicenda dello Stato italiano quello dei continui rinvii e della forza d’inerzia di fronte a situazioni che invece richiederebbero delle precise scelte istituzionali. Invece di togliere il vecchio per modificare l’esistente si procede per accumulo del nuovo sul vecchio, con la creazione di un effetto di stratificazione di norme ed istituzioni, che difficilmente riescono ad omogeneizzarsi tra loro.
Il libro di Cassese si chiude ricordando i grandi progressi fatti dal paese, pur con tutti i limiti che l’hanno caratterizzato. E perciò rincresce pensare quanto sarebbe stata diversa l’Italia se avesse saputo dotarsi di un sistema politico rispondente alle esigenze del Paese. Ma proprio la volontà di rimediare agli errori del passato è il senso di bilanci storico-politici come quello propostoci qui da Cassese.
* S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, il Mulino, Bologna, 2011