di Gianni Ferracuti

Com’era prevedibile, l’esibizione di Celentano al festival di Sanremo ha suscitato le rituali polemiche, che la RAI aveva sicuramente messo in preventivo come ingrediente dell’operazione mediatica. Siamo un Paese che ama la discussione oziosa, e tuttavia credo che un’analisi su questo argomento futile possa condurre a considerazioni di un certo interesse.

In primo luogo, Celentano è un artista che da anni propone un prodotto di un certo tipo, i cui ingredienti principali – a parte l’ottima scenografia, la regia eccellente e l’uso originale dei tempi e modi del linguaggio televisivo – sono la musica e il cosiddetto “sermone”: è il suo prodotto artistico e lo vende nel mercato perché questo è il suo mestiere; se piace, si compra; se non piace, si cerca altro. Alla RAI interessa Celentano, perché fa ascolti incredibili, ma vorrebbe dal cantante un prodotto artistico diverso, per esempio in stile Al Bano, ma il cantante non ci sta e si premunisce con una schiera di avvocati che lo assistono nella redazione del contratto: di nuovo, se piace si compra, se no, no. Il “prodotto Celentano” non è il progetto artistico di un folle megalomane, ma è normalmente presente nell’ambito della musica rock, dove la commistione tra musica e politica esiste da sempre, solo che né i 99 Posse né il rock dei gruppi di destra fanno gli ascolti di Celentano. Né va dimenticato che pensare solo a programmi di intrattenimento privi di contenuti politici è, a sua volta, una scelta politica, come lo era il famoso cartello “Qui si lavora e non si fa politica”.

Si dirà che la RAI è servizio pubblico, e non è giusto che si affidi a voci evidentemente di parte. Qui la risposta potrebbe essere duplice. Anzitutto la RAI è un ibrido: fa servizio pubblico (si paga un canone) e sta nel mercato come le aziende private (vende pubblicità): quando è servizio pubblico e quando è mercato? Perché invocare il servizio pubblico solo quando si parla di politica? Sarebbe opportuno eliminare questa contraddizione e scegliere l’uno o l’altro settore o ruolo. Dal punto di vista del mercato, l’operazione Celentano è stata un trionfo.

In secondo luogo, essere servizio pubblico ed esprimere opinioni di parte non sono cose incompatibili: basta dare spazio a tutte le parti. Qui il problema è che non esiste (o non si fa emergere) un Santoro di destra o un Floris o un Celentano di destra, che abbiano la professionalità necessaria a ottenere ascolti significativi. Venti anni di berlusconismo hanno ridotto la cultura di destra a uno stato comatoso (benché anche la sinistra “ufficiale” non stia messa meglio), incapace di competere sul piano dello spettacolo televisivo. Chiudere Celentano o Santoro perché non gli si trova un contrappeso è ridicolo, come chiudere “Libero” perché fallisce il “Manifesto”. Il “prodotto Celentano” è uno spettacolo, e come tale il suo valore si misura solo con il gradimento del pubblico, esattamente come L’isola dei famosi o il Grande fratello, che non sono certo privi dei loro bravi contenuti politici.

Piuttosto c’è un’altra considerazione da fare. Piaccia o non piaccia, Sanremo rappresenta uno dei momenti principali nella programmazione della televisione nazionale. Orbene, con tutto il rispetto per le loro rispettive professionalità (e con tutto il mio amore per Celentano, da cui ho ascoltato la prima canzone rock della mia vita), sul palco del festival c’erano un conduttore ultrasessantenne e un ospite ultrasettantenne: il resto era noia. Gerontocrazia italiana, dove lo spettacolo rispecchia la politica e dove i giovani hanno spazio solo se dimostrano di essere invecchiati precocemente: il sindaco Renzi nel ruolo di giovane vecchio, come i Marlene Kunz in versione soporifera. Davvero la musica (politica) italiana è come quella esposta a Sanremo (Montecitorio)? In Italia si è giovani dirigenti a un’età in cui nel resto del mondo si va in pensione e si mette a frutto la propria esperienza dentro una fondazione. Davvero è così impossibile mettere in uno stesso spazio Jerry Lee Lewis e Ana Popovic, Battiato e Carlo Faiello, Keith Richards e Irene Fornaciari? Con l’ottimismo della disperazione, direi di no. Ma io mi occupo di musica: di politica non so.

 

 

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