di Alessandro Campi

Sono trascorsi esattamente vent’anni dallo scoppio dell’inchiesta di “mani pulite”, che decapitò i vertici della politica italiana e innescò la crisi irreversibile della Prima Repubblica e del sistema dei partiti che ne costituiva il fondamento. E siamo ancora qui a parlare – come dimostra la sconfortante denuncia della Corte dei Conti – di corruzione, tangenti e illegalità: un cancro che continua a divorare la società italiana e a frenare l’economia del Paese. Ancora discutiamo di come riformare la politica e i partiti, di come restituire senso morale e trasparenza al governo della cosa pubblica.

È chiaro che qualcosa non ha funzionato in questo ventennio, che non a caso molti osservatori, nelle rievocazioni di questi giorni, descrivono come un’occasione persa, come un tentativo per rifondare le nostre istituzioni e la nostra vita civile andato miseramente fallito.

Il trauma di Tangentopoli aveva in effetti fatto sperare in un processo rigeneratore, guidato da “uomini nuovi” e da aggregazioni senza più rapporti di parentela con la vecchia partitocrazia. In realtà, il radicale avvicendamento nel personale politico, il turbinio di sigle e formazioni che si sono contese il potere dal 1994 ad oggi, la retorica sul pragmatismo opposto alle antiche ideologie hanno prodotto soltanto la parvenza di un cambiamento: l’intreccio perverso tra politica e affari, lo scambio occulto tra risorse pubbliche e consenso elettorale, il clientelismo e l’inosservanza della legge a partire dai vertici del potere sono rimasti la regola a dispetto dei buoni propositi coltivati dalla propaganda.

Ma ciò che sconforta non è solo la consapevolezza di aver sprecato un’occasione storica e di trovarci, dopo tante fibrillazioni e tante inutili speranze, nuovamente al punto di partenza. Non è solo il dover sentire sempre gli stessi discorsi edificanti, le solite vaghe e inutili promesse, da parte di chi nulla ha fatto in questi anni per evitare che si arrivasse a un tale punto di degrado. È soprattutto il paragone – per noi mortificante e perdente – con le altre nazioni, dove non mancano scandali e ruberie, ma dove operano meccanismi di controllo e forme di sanzione (giuridica e sociale) che costringono il politico maramaldo o corrotto o chiacchierato a farsi da parte immediatamente e una volta per sempre.

Ed è questo il punto, guardando all’Italia. Non è la corruzione dilagante che preoccupa, non sono le continua notizie di malversazioni e abusi a fare paura, ma l’impressione che chiunque se ne renda protagonista – specie se politico – possa farla franca. Ciò che spaventa è piuttosto l’impunità generalizzata, il non dover mai rispondere dei proprio comportamenti, l’idea che non esistano misure o regole sufficienti per mettere al bando chi delinque o infrange il codice della morale o tiene comportamenti pubblici inappropriati al ruolo che riveste.

Non solo, ma richiedere alla politica rigore e trasparenza, comportamenti virtuosi e sanzioni esemplari per chi sbaglia, espone spesso alla curiosa accusa di moralismo o puritanesimo intransigente, laddove il lassismo etico, l’indifferenza che sconfina nell’arroganza, vengono invece spacciati per garantismo o peggio valorizzati come un segno di scaltrezza. Il che forse spiega perché rifondare la politica su basi morali – magari affidandosi ad un cambio della legge elettorale o a qualche altra operazione di maquillage – appaia un’impresa al momento senza speranze e perché la sfiducia degli italiani verso i loro governanti, a ogni livello, abbia raggiunto vette stellari.

C’è solo da sperare, se questa è la situazione, in un effetto emulativo e in una lenta opera di pedagogia dall’alto. Da questo punto di vista, oltre che sul terreno del risanamento economico, potrà essere utile l’esperienza del governo tecnico in carica. La linea del rigore, della trasparenza, della sobrietà e di una certa intransigenza che esso ha scelto, anche nel modo di presentarsi all’esterno, è infatti espressione di uno stile e di un abito mentale che nel resto del mondo rappresentano la regola per chi gestisce la cosa pubblica.

La politica ufficiale talvolta ironizza sui modi compunti e le rigidità dei ministri-professori, ma dovrebbe invece trarne spunto per rigenerarsi e rendersi nuovamente rispettabile agli occhi dei cittadini. La rinascita della politica, tanto invocata di questi tempi, non richiede a ben vedere uomini immacolati o istituzioni perfette, ma cose elementari quali la pubblica decenza, il rispetto per il prossimo, il senso del dovere e l’osservanza delle regole. Sinora sono mancate o sono state considerate merce superflua dalla classe politica, ma chissà che al governo Monti non riesca anche il miracolo di farle diventare – con la forza dell’esempio – un bene necessario, un bagaglio indispensabile, per chiunque ne prenderà il posto quando la sua esperienza sarà finita.

 

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