di Giuliano Gioberti
La sentenza (inappellabile e vincolante) della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che ha condannato i respingimenti verso la Libia attuati dall’Italia in osservanza del Trattato di amicizia sottoscritto con il Paese nord-africano nell’agosto del 2008, era largamente attesa, stando alle normative vigenti e agli orientamenti della dottrina in materia di diritto d’asilo e di protezione e assistenza da riservare ai profughi e ai rifugiati.
A ben vedere, il pronunciamento della Corte – che ha riguardato in particolare il cosiddetto caso Hirsi, avvenuto il 6 maggio 2009, quando circa duecento emigranti di nazionalità somala ed eritrea furono intercettati in acque internazionali, a sud di Lampedusa, e riaccompagnati contro la loro volontà a Tripoli – non ha fatto altro che riaffermare alcuni principi previsti solennemente da numerosi trattati e accordi internazionali: dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, che sancisce tra le altre cose – art. 33. 1 – il divieto di espellere o respingere “in qualsiasi modo, un rifugiato verso confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate”, alla Convenzione sui diritti umani, secondo la quale – art. 3 – “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
La colpa delle autorità italiane, dopo aver bloccato i migranti in alto mare non per prestare loro soccorso ma in ottemperanza a politiche di controllo delle frontiere e a misure di contrasto all’immigrazione clandestina decise dal governo dell’epoca, è stata giudicata duplice.
Da un lato, non avendo proceduto alla loro identificazione e quindi alla verifica del loro status eventuale di rifugiati, esse non hanno consentito a questi ultimi di avanzare – come poteva essere nel loro diritto – una richiesta d’asilo e di protezione nei confronti dello Stato italiano che in quel momento, pur essendo lontani dai confini territoriali nazionali, aveva egualmente piena giurisdizione su tutte le persone a borde delle navi.
Dall’altro, anche se in osservanza alle clausole di un trattato formalmente sottoscritto da due Paesi e pienamente vigente, esse li hanno ricondotti forzatamente verso un Paese – la Libia ancora sotto il pungo di ferro di Gheddafi – dove sono stati ospitati in centri di detenzione sovraffollati e privi di ogni elementare assistenza, gestiti notoriamente con metodi brutali e senza alcun rispetto per i più elementari diritti della persona.
Da qui, da queste duplice inadempienza, la condanna per l’Italia a risarcire con un indennizzo di 15 mila euro una ventina di questi migranti che, rintracciati e assistiti dal Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) dopo il loro respingimento, si sono a suo tempo rivolti con un ricorso alla Corte europea dei diritti umani e hanno alla fine ottenuto ragione.
Ma se sul piano del diritto (positivo e naturale) questa sentenza – giudicata da molti commentatori, ad esempio da Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), di portata storica e universalistica, come la sconfessione definitiva delle politiche migratorie incentrate sulla sicurezza più che sul rispetto dei diritti umani fondamentali – non sembra fare una grinza, sul piano politico generale essa merita un commento meno dettato dall’entusiasmo e dall’emozione.
Non si può nascondere, ad esempio, che la linea della fermezza scelta dal governo Berlusconi a partire dal 2008, se da un lato ha obbedito ad una (discutibile) linea ideologica cavalcata in particolare dalla Lega, dall’altro ha anche risposto ad un interesse precipuo dell’Italia, che nel corso dell’ultimo decennio si è trovata ad affrontare praticamente da sola – senza alcun sostegno reale da parte dell’Europa – l’emergenza degli sbarchi sulle nostre coste di migranti provenienti, in particolare, dall’Africa sub-sahariana. Un fenomeno che al momento sembrerebbe essersi rallentato, ma che potrebbe presto riesplodere – avendo sempre come terminale le frontiere meridionali dell’Italia – considerati la crescente instabilità politica e l’endemico sottosviluppo economico di quella parte del mondo.
I respingimenti in mare saranno pure una pratica contraria al diritto internazionale e al senso di umanità, ma limitarsi a invocare lo spirito di accoglienza e l’osservanza delle norme, lasciando però che sia un solo Paese a farsi carico di un problema che dovrebbe invece riguardare l’intero continente europeo, appare una pratica nel segno dell’ipocrisia e della malafede.
Se ne è avuto un esempio eclatante durante la guerra di Libia o mentre erano in corso le rivolte di piazza in Tunisia ed Egitto, con i blocchi alle frontiere e le restrizioni agli ingressi di migranti extracomunitari decisi praticamente da tutti i Paesi europei. L’idea, avanzata in quel delicato frangente proprio dall’Italia, di concedere a coloro che sbarcavano a Lampedusa permessi temporanei di circolazione validi per l’intera area Schengen fu considerata un’eresia dagli altri membri dell’Unione, ben intenzionati a non accogliere profughi sul proprio territorio. Chi non ricorda la polizia francese schierata sul confine di Mentone per bloccare l’arrivo di tunisini in fuga dal loro Paese in fiamme?
Insomma, l’Italia certo si merita la condanna legale che le è stata inflitta, a partire da un episodio che sicuramente non le fa onore, ma una condanna politica non meno solenne andrebbe rivolta a chi – in primis proprio l’Unione europea – non perde occasione per lanciare moniti morali e per invocare il rispetto dei principi e delle regole, ma poco sinora ha fatto per affrontare e risolvere, con politiche d’accoglienza e d’integrazione che per quanto liberali non possono a loro volta trascurare l’esigenza della sicurezza collettiva, il dramma divenuto ormai biblico dell’immigrazione.
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