di Giuliano Gioberti
La vicenda di Cesare Battisti – che da settimane è tornato un uomo libero dopo che la l’Alta Corte del Brasile ha definitivamente respinto la richiesta di estradizione avanzata dal Governo italiano – suggerisce diverse considerazioni, tutte nel segno dell’amarezza. Specie dopo l’ennesima presa di posizione del Capo dello Stato, che nei giorni scorsi è tornato a criticare l’atteggiamento delle autorità brasiliane.
La prima, d’ordine generale, riguarda la condizione di minorità nella quale sembra ormai trovarsi l’Italia sulla scena internazionale. Lasciamo perdere per colpa di chi e per quale complesso di ragioni. Fatto sta che il nostro Paese fatica sempre più a farsi sentire nei consessi internazionali, non gode più delle attenzioni che un tempo le erano riservate a livello diplomatico.
Se finanche un Paese come il Brasile, al quale siamo legati da anni da vincoli assai stretti, vuoi per la massiccia presenza in quella nazione di comunità di immigrati italiani, vuoi per le ingenti risorse che ad esso abbiamo destinato attraverso la nostra cooperazione, vuoi infine per i rapporti economici e imprenditoriali che da sempre ci legano, ci tratta con tanta sufficienza è perché, evidentemente, non veniamo più percepiti come una realtà politico-istituzionale meritevole di considerazione. Nelle relazioni internazionali contano la forza (sia essa economica o militare) e il prestigio: non abbiamo più, a quanto pare, né l’una né l’altro. Nemmeno icontinui internenti di Giorgio Napolitano, tra i pochi politici italiani a godere di un universale rispetto, è servito per far cambiare idea alle autorità brasiliane, che semplicemente ci hanno trattato con un misto di supponenza e impertinenza.
Ma ancora più importante è forse la seconda considerazione, che ha a che vedere con la vicenda specifica – il terrorismo e gli anni di piombo – cui è legato il nome il nome di Battisti. Per quale ragione all’estero è così diffuso il convincimento che personaggi che pure si sono macchiati di gravissimi fatti di sangue possano essere considerati dei perseguitati politici, ai quali riservare accoglienza e protezione? Si tratta dell’abbaglio coltivato in malafede da intellettuali influenti che ancora vivono nel mito della rivoluzione o della semplice ignoranza di politici che poco conoscono della storia italiana, anche di quella recente?
Probabilmente entrambe le cose. Ma prima di prendersela con la manifesta ottusità di coloro che in questi anni si sono pubblicamente spesi a favore di Battisti, giudicando che la giustizia italiana che l’ha condannato non fosse da considerare equa e obiettiva, forse converrebbe farci – noi italiani – un profondo esame di coscienza. Dovremmo cioè chiederci se per caso la cattiva o falsa conoscenza che si ha all’estero delle vicende del terrorismo che ha insanguinato l’Italia negli anni Settanta e Ottanta (all’interno delle quali sono maturate le gesta criminali di Battisti) non dipenda da una nostra diretta responsabilità.
Lamentando l’atteggiamento sordo del governo brasiliano, il Presidente della Repubblica ebbe a dire qualche tempo fa, proprio con riferimento al periodo degli “anni di piombo”: «Non siamo riusciti a far capire cos’è stato per noi» (parole che ha ripetuto, tali e quali, nei giorni scorsi). Ma si può far capire agli altri – nel caso di Battisti a persone che vivono in un altro continente – quel che probabilmente non abbiamo capito noi stessi e che in tutti questi anni non siamo riusciti a spiegarci in modo convincente?
La domanda è sgradevole, ma merita una risposta minimamente articolata e obiettiva. Tanto per cominciare, ancora oggi, ed è francamente sconcertante, non esiste una storiografia univoca e minimamente obiettiva che abbia ricostruito in tutti i suoi aspetti quello scoppio di violenza e irrazionalità che così tanti morti e sofferenze è costato. Il racconto di quegli anni è stato lungamente affidato alla memorialista assolutoria e indulgente dei carnefici e, più di recente, alla memorialistica, per definizione intrisa di umana sofferenza e anch’essa parziale, delle loro vittime. Ci sono pagine – dalle stragi al caso Moro – sulle quali ancora non si è riusciti a fare luce pienamente. Come ha detto una volta il senatore Giovanni Pellegrino, che a suo tempo ha presieduto la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e il terrorismo, è come se si fosse stabilito una sorta di «patto di omertà», che dura ancora oggi, tra le istituzioni della Repubblica e i militanti dei vari gruppi armati che hanno insanguinato il Paese. Se noi stessi siamo stati così reticenti su questa tragica fase della nostra storia, al punto da rinunciare a conoscere la verità o da interpretarla, nel migliore dei casi, in una chiave ancora ideologica e partigiana, come possiamo prendercela con gli altri?
Ma c’è un altro problema. Fior di intellettuali ed eminenti politici stranieri sono ancora oggi convinti che negli anni del terrorismo la violenza dei rivoluzionari e quella dello Stato italiano si siano compensate dal punto di vista dei torti e delle ragioni. C’è ancora chi è convinto che l’Italia dell’epoca – governata dai democristiani – fosse un regime autoritario e illiberale che dava copertura ai disegni eversivi dell’estrema destra e che, per questa ragione, in qualche modo giustificava la reazione, anche armata, dell’estrema sinistra. Ma chi ha messo per la prima volta in circolazione un’idea del genere, in forza della quale si arrivò addirittura a sostenere l’equivalenza tra Stato e Brigate Rosse ovvero la possibilità di prendere le distanze da entrambi, senza distinguere tra la legittimità del primo e le finalità eversive delle seconde? Chi ha costruito la favola, dura morire all’estero a distanza di decenni, che l’Italia degli anni Settanta non era uno Stato di diritto, ma una realtà nella quale il dissenso era represso dalla polizia e da una magistratura pilotata dal potere?
La risposta è semplice. Siamo stati noi, abbiamo fatto tutto da soli. Forse l’abbiamo dimenticato, ma i “cattivi maestri” (intellettuali, politici, giornalisti) che civettavano con la lotta armata o che semplicemente si limitavano a giustificare la violenza delle masse, se non altro come strumento di difesa contro i padroni e i borghesi, erano italiani. Italiani che dovrebbero oggi morire dalla vergogna al pensiero delle idiozie che sono stati capaci di scrivere e sostenere in quegli anni di totale impazzimento collettivo. All’estero li hanno semplicemente preso sul serio, hanno creduto alle loro baggianate da rivoluzionari da salotto, ed ecco il bel risultato: fuori d’Italia – dalla Francia al Brasile – c’è ancora chi è convinto, magari in buona fede, che Battisti sia stato per davvero un combattente per la libertà e non, semplicemente, un volgare assassino nel nome di idee e visioni politiche fuori dalla storia.
Da qui la neccessità, per cercare di capire noi per primi quel che poi dovremmo spiegare agli altri, la necessità (e forse l’utilità) di un appuntamento come quello programmato a Roma, il prossimo 19 ottobre, dall’Istituto di Politica, nel corso del quale si discuterà per l’appunto della (cattiva) memoria collettiva del terrorismo e degli anni di piombo. Per liberarsi dai fantasmi forse è necessario evocarli.