di Alessandro Campi

Qualche giorno fa, intervistato dagli americani di Bloomberg, Mario Monti, con riferimento al suo futuro politico, ha sostenuto quanto segue: «Se io e i miei ministri faremo molto bene il nostro lavoro, non credo che ci siano molte probabilità che ci chiedano di rimanere in carica». Avete letto bene? «Non credo», ha detto il Presidente del Consiglio, «che ci siano molte probabilità etc.».

Una frase strana e curiosa, ironica e venata di paradosso, ma anche – se letta con attenzione – altamente istruttiva. Richiama, infatti, il problema che da settimane assilla il mondo politico ufficiale e che si riassume nella seguente domanda: (…) quale ruolo giocheranno i tecnici nei prossimi equilibri politico-istituzionali dell’Italia?

A rigor di logica, se l’attuale esecutivo dovesse riuscire negli ambiziosi traguardi che si è dato per i prossimi mesi – risanamento dei conti pubblici, rilancio economico-produttivo, riforma del mercato del lavoro e del fisco, liberalizzazioni, ecc. – sarebbe un suo preciso dovere continuare nell’opera. Lo chiederebbero i cittadini a gran voce, nel loro stesso interesse, ma dovrebbero desiderarlo anche i partiti che lo sostengono in Parlamento, per il bene del Paese. Perché dare il benservito a chi ha ben operato?

La frase pronunciata da Mario Monti andrebbe perciò corretta, sul filo della ragionevolezza e del buon senso, nel modo seguente: «Se io e i miei ministri faremo molto bene il nostro lavoro, credo che ci siano molte probabilità che ci chiedano di rimanere in carica». L’unica ragione plausibile per essere spedito a casa insieme alla sua squadra risiederebbe, infatti, nell’eventuale fallimento degli impegni che sono stati assunti dinnanzi agli italiani e alla comunità internazionale.

Ma la politica dei partiti – sembra dire Monti con calcolata perfidia – obbedisce a logiche e comportamenti che non sono quelli convenzionali. Essa non premia il merito e la capacità, ma lo spirito di appartenenza e il gregarismo. Il suo problema non è tutelare l’interesse generale, ma salvaguardare le convenienze particolari: quelle proprie e quelle dei gruppi sociali o delle categorie che ogni singola formazione rappresenta. C’è dunque realmente la possibilità che, una volta terminato il proprio lavoro, avendo magari dimostrato di essere efficienti e capaci, i tecnici vengano cordialmente congedati da chi non aspetta altro che riprendersi la guida del Paese.

In realtà, per i partiti, anche se lo desiderano, non sarà così facile racchiudere l’esperienza Monti – specie se foriera di buoni risultati – all’interno di una parentesi dettata dall’emergenza, esaurita la quale i professionisti della politica potranno finalmente tornare al posto di comando. Dovrebbero fare i conti, se non altro, con un’opinione pubblica oltremodo indisposta nei loro confronti, che certo non brama per vedere nuovamente all’opera gli artefici di molte delle recenti sfortune dell’Italia.

Da qui il corteggiamento – in alcuni casi goffo o discreto, in altri esplicito e insistente – cui i tecnici più in vista sono stati sottoposti da parte dei diversi schieramenti nelle ultime settimane, a dimostrazione di una debolezza dalla quale la politica non riesce ad emanciparsi con le sue sole forze. Destra, centro e sinistra: tutti, a quanto pare, ambiscono ad avere tra le loro fila, come prossimo candidato alla guida del governo e magari come leader di partito vero e proprio, Monti o Passera o la Fornero.

Da qui le ipotesi che circolano – recentemente rilanciate da Berlusconi a Bruxelles, anche se successivamente corrette o smentite – di una “larga coalizione” (dal Pdl al Pd passando per il Terzo Polo) che dovrebbe consentire ai tecnici (a Monti in particolare) di proseguire la loro esperienza anche dopo la primavera del 2013.

Ma da qui anche l’atteggiamento vieppiù icastico, tra il sornione e l’irridente, che dietro l’apparente correttezza formale sembra caratterizzare i messaggi rivolti da Monti ai partiti che lo sostengono.

Se da un lato dice ufficialmente di rispettarli nel loro sforzo comune a sostegno del suo governo, aggiungendo di non volersi impegnare politicamente oltre le elezioni del 2013, dall’altro – allorché ironizza sul fatto che potrebbero mandarlo a casa proprio perché avrà fatto bene il suo lavoro – lascia intendere che in realtà la sua avventura è destinata a continuare: i problemi del Paese, infatti, sono troppo gravi e strutturali per essere risolti nel giro di pochi mesi e in ogni caso non possono certo essere affrontati da organismi che da anni versano in una grave crisi di idee e di credibilità e che nel recente passato hanno spesso dato prova di insipienza.

Ne risulta un’alternativa drammatica, che lascia alla politica tradizionale, faticosamente alla ricerca di un ruolo o di una rinascita, poco spazio di manovra. Se i tecnici falliscono, con essi va alla malora non solo quest’ultima, ma l’Italia intera. Se i tecnici riescono, sarà difficile rinunciare al loro contributo determinante.

La soluzione potrebbe essere, in quest’ultimo caso, cercare di cooptarli, secondo le rispettive sensibilità culturali, nei diversi partiti oggi esistenti, in modo da presentarli come fiori all’occhiello per i rispettivi elettori.

Ma non è da escludere – se il loro tentativo andrà a buon fine – un’altra evenienza: che scelgano essi stessi, abbandonati gli abiti del professore e del burocrate, di vestire panni direttamente politici e di surrogare un ceto partitico che in effetti continua ad apparire in ritardo sulla storia e progettualmente allo sbando.

La loro entrata in scena, con un’autonoma proposta rivolta al Paese, forti dei risultati nel frattempo conseguiti e della fiducia conquistata sul campo, determinerebbe, inevitabilmente, un radicale scombussolamento degli attuali schieramenti e la nascita di nuove aggregazioni.

Sarà questo lo scenario al quale Monti – che il salto da tecnico a politico sembra averlo compiuto già da un pezzo – ha voluto maliziosamente alludere?

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