di Gianni Ferracuti
Dunque l’incontro tra il presidente Napolitano e i sindaci della Val di Susa contrari al progetto TAV non è avvenuto. La motivazione, trasmessa dai giornali, è che il presidente ha voluto tenere la massima istituzione dello stato fuori dalle polemiche, evitando di incontrare una fazione. Sarebbe stata una motivazione eccellente, se non ci fossero due particolari stridenti. Il primo è che lo stesso presidente Napolitano ha dichiarato l’inevitabilità della TAV, che a suo parere è utile, opportuna e urgente; la seconda è che un sindaco non è una fazione, ma rappresenta l’intera cittadinanza, è un’istituzione della repubblica e non l’esponente di un partito politico.
Al di là dello sgarbo istituzionale, l’episodio e l’intera gestione della polemica sulla TAV palesano senza maschere il carattere post democratico dell’attuale regime italiano. Post democrazia è il regime in cui le istituzioni democratiche funzionano tutte in maniera corretta, e tuttavia la volontà del popolo non viene tenuta in alcuna considerazione. Si tratta di un’evoluzione del tradizionale trasformismo italiano, la cui differenza dalla tecnocrazia sta proprio nel mantenimento del carattere formale delle istituzioni democratiche.
Il processo inizia alla fine della guerra fredda, quando in Italia si manifesta prepotentemente il bisogno di liberarsi da ciò che veniva chiamato partitocrazia. La famosa “questione morale” evocata in una intervista di Enrico Berlinguer, più che morale era politica: Berlinguer denunciava l’occupazione di ogni funzione pubblica ad opera dei partiti, in una logica spartitoria, che annientava la differenza tra politica e amministrazione e gettava le premesse di ciò che oggi viene chiamato, spregiativamente, “la casta”.
Nell’ultimo ventennio, che nei giorni scorsi Massimo Cacciari su Rainews definiva “sciagurato e inutile”, i partiti hanno tentato in ogni modo di svuotare di significato il ricorso alla volontà popolare, che in Italia dà spesso ottimi risultati. Grazie alla volontà popolare, accertata attraverso i referendum, abbiamo delle decenti leggi sul divorzio e l’aborto, abbiamo cancellato il finanziamento pubblico ai partiti, la cassa del mezzogiorno, la preferenza multipla sulla scheda elettorale, il nucleare, e via dicendo. L’istituto del referendum è stato il primo nemico da neutralizzare. Si è cercato di farlo in ogni modo, fino alla sonora sconfitta subita dalla “casta” sul nucleare e sull’acqua pubblica: allora è tornato a far paura, e la successiva mobilitazione, che ha portato a raccogliere un numero impressionante di firme per la cancellazione della legge elettorale, deve aver portato al panico. Post democraticamente, il quesito referendario è stato giudicato inammissibile.
In questo ventennio sciagurato, la politica italiana ha adottato una forma di rappresentanza basata sul nulla, con due grossi partiti, l’uno unificato dalla presenza carismatica di Berlusconi, l’altro unificato dall’idea di cacciare Berlusconi, entrambi meri contenitori senza alcun progetto, senza alcuna idea di sviluppo e, infine, senza alcuna capacità di fronteggiare una crisi indotta dal malgoverno e da cause esterne. Sondaggi più o meno adattati, primato dell’immagine sulla realtà, informazione manipolata, saccheggio delle risorse pubbliche, hanno portato al tracollo questa fase berlusconiana/antiberlusconiana della post democrazia e costretto a nuove scelte, spacciate come “tecniche”. Tecniche significa indiscutibili.
A proposito della nomina del governo Monti, qualcuno si è spinto a dire che si è trattato quasi di un golpe bianco. L’espressione è esagerata e fuori luogo, ma fotografa un problema molto importante. Viviamo oggi con una costituzione formale vigente, e con una costituzione materiale molto diversa. Formalmente siamo una repubblica parlamentare, ma nella prassi il corpo elettorale esige di poter scegliere il capo del governo nelle elezioni politiche – cioè rivendica un potere che la costituzione assegna al capo dello stato. In questa ambiguità, che rappresenta un problema politico non trascurabile, è chiaro che il governo Monti è perfettamente legittimo e non rappresenta un golpe; però è politicamente inopportuno: è una parentesi, si è detto candidamente in pubbliche dichiarazioni, cioè la sospensione di una normalità. Non un golpe, ma una decisione presa senza l’avvallo del corpo elettorale, dato per superfluo. Insomma, Monti come Cincinnato, dopo Berlusconi come Masaniello.
Si dirà che Monti gode di un incontestabile favore popolare: è vero. Ma questo non ha alcun rilievo democratico, perché in democrazia il favore popolare conta solo se si traduce in voti, e Berlusconi questa traduzione l’ha sempre avuta. Se poi fosse vero quanto affermato da Bossi, che è pur sempre un ex ministro, cioè che vi è stato uno scambio tra le dimissioni di Berlusconi e una favorevole soluzione delle sue vicende giudiziarie, risulterebbe chiaro che il governo Monti nasce da una manovra di palazzo. Ma questo è un aspetto marginale. La sostanza è nel carattere politico del governo Monti, che sembra incarnare in maniera diretta e senza mediazioni la prassi post democratica. È infatti un governo che si presenta appunto come tecnico. La qualifica di tecnico, applicata al governo di un paese, come se potesse esistere in natura un governo non politico, ha fatto sorridere molti commentatori, eppure ha un suo significato chiaro: indica che le scelte di tale governo, nell’essenziale, non sono discutibili politicamente (abbiamo sentito un ministro dichiarare, nella sostanza, che la TAV va fatta perché sì!). Non è discutibile che si debbano ripianare i conti pubblici (fin qui bastava un commercialista); col governo tecnico diventa indiscutibile il modo con cui si ripianano – per esempio, aumentando la benzina e le tasse sulla prima casa, anziché fare una seria patrimoniale. Ma il modo è ciò che, essenzialmente e per sua natura, una democrazia deve discutere, altrimenti cessa di essere democrazia. La cortina fumogena della scelta tecnica ha eliminato ogni discussione seria dal Paese, lasciando il campo soltanto alle trattative occulte delle lobby. Si è detto che l’opposizione alla TAV è ideologica e implica l’opposizione a un certo modello di sviluppo: e che altro dovrebbe essere? di che altro si dovrebbe occupare un Paese, se non del suo modello di sviluppo? o vogliamo continuare con un modello alla Fukushima, in cui i profitti vanno ad alcuni e i costi si scaricano sulla collettività? Se ideologia è diventata una parolaccia, vuol dire che non è possibile una critica di sistema: il sistema è dunque un dogma, e la democrazia è superflua.
È tuttavia ammesso il dissenso: pacifico, ma dissenso. Ma nell’ammettere questo i nostri amati leader si comportano come apprendisti stregoni. Il dissenso non è soltanto un’opinione individuale, che rimane nell’ambito della propria vita privata. In democrazia il dissenso è discussione, è proposta, è comizio e manifestazione pubblica, e se viene condiviso da una collettività diventa movimento politico. È grave che a questo movimento politico non si risponda col dialogo, trasformando il dissenso stesso in proposta da discutere nelle sedi istituzionali, perché questo comporta che il movimento, se è radicato, alzerà la voce, cercherà visibilità, passando prevedibilmente dalla manifestazione al blocco stradale e oltre. Un dissenso collettivo è un soggetto politico: o ci si dialoga, o si manda la polizia (in effetti si parla di presidiare la Val di Susa con l’esercito). Ma il dialogo non fa parte del DNA della post democrazia. Perfino, nel suo piccolo, il Partito Democratico ha paura della gente che partecipa in massa alle sue primarie, con la pretesa di volersi scegliere il candidato sindaco indipendentemente dalle indicazioni delle segreterie dei partiti: in post democrazia il voto non deve scegliere, ma semplicemente ratificare. Bisognerà riformare le primarie perché comincino a funzionare. E per le prossime elezioni si prepara il colpo finale, all’insegna del “governare meno, governare tutti”: PD, PDL, Terzo Polo, tutti insieme, con partitini minori all’opposizione per garantire il carattere democratico del sistema, secondo un modello tedesco che, in versione italiana, sarà chiamato la “grande colazione”.
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