di Francesco Coppola
L’Italia è finalmente tornata credibile sulla scena mondiale. Quante volte, nelle ultime settimane abbiamo sentito – e ripetuto – una simile frase?
Tra gli obiettivi del governo tecnico guidato da Mario Monti, oltre il risanamento finanziario e la stabilità dei conti pubblici, c’era anche quello di restituire al nostro Paese – dopo gli anni folli del berlusconismo, segnati da gaffe in mondovisione nei consessi internazionali e da sortite diplomatiche nel segno dell’improvvisazione e di un equivoco spirito affaristico – quel minimo senso del decoro e della serietà, dell’affidabilità e del rispetto reciproco, richiesto come requisito di base nelle relazioni tra Stati sovrani.
E in effetti è parso che nel giro di poche settimane – grazie ad un intenso lavorio diplomatico e all’attivismo dello stesso Monti, che uno dopo l’altro ha incontrato tutti i principali leader politici occidentali, ricevendone peraltro apprezzamenti e lodi aperte – la situazione dell’Italia si sia come drasticamente invertita: da realtà politicamente eccentrica, della quale nemmeno più gli alleati si fidavano, peraltro alle prese con una pesante crisi economica, è tornata ad essere un interlocutore di primo piano per tutte le cancellerie europee e per gli stessi Stati Uniti. Eravamo, sino a qualche mese fa, i malati d’Europa, siamo diventati in poco tempo un Paese alle cui mosse tutti guardano con grande attenzione e rispetto.
Ma sono bastati un paio di episodi per farci tornare alla brusca realtà e per farci capire quanto sia difficile per l’Italia – a causa di una politica estera che negli ultimi due decenni è stata spesso ballerina e di una situazione politico-istituzionale a sua volta nel segno di una perenne instabilità – godere di uno status internazionale all’altezza della sua storia, delle sue ambizioni e delle sue effettive potenzialità. Insomma, non basta una cura da cavallo di pochi mesi per guadagnare di prestigio e di autorevolezza agli occhi del mondo, dopo che per anni si è data un’immagine di sé nel segno del pressapochismo e della mutevolezza.
Gli episodi ai quali ci riferiamo riguardano, ovviamente, la detenzione in India (con l’accusa di omicidio) di due nostri militari, che ha ingenerato un contenzioso politico-legale di assai difficile soluzione, e l’uccisione in Nigeria – durante un blitz delle forze speciali inglesi – di un nostro connazionale, Franco Lamolinara, da mesi ostaggio di un gruppo armato d’ispirazione islamista.
Il primo caso ha messo a nudo le debolezze della nostra rete diplomatica, che non è riuscita in alcun modo a far valere le proprie ragioni dinnanzi alle autorità indiane rispetto ad una vicenda che sin dal primo momento è apparsa palesemente forzata da calcoli e interessi meramente politico-elettoralistici. C’è poco da appellarsi al formalismo del diritto o alla ragionevolezza per dirimere un episodio che la controparte ha scelto di cavalcare in modo sfacciatamente strumentale e propagandistico. C’era piuttosto da alzare la voce in tutte le sedi internazionali, denunciando l’India per le forzature, gli abusi e le violazioni di legge che ha operato. Bisognava farsi sentire “politicamente” invece di affidarsi ai passi felpati delle feluche di professione. Ma così non è stato.
Il secondo caso – se possibile più grave, non foss’altro perché è costato la vita ad un nostro cittadino – ha invece evidenziato i ritardi del nostro sistema di intelligence e sollevato dubbi sulla effettiva consistenza della nostra rete di rapporti militari con le potenze alleate. Possibile che gli inglesi abbiamo preparato un’operazione anti-terrorismo con l’impiego di così tanti uomini, a migliaia di chilometri dalla terra madre, senza che i nostri servizi segreti ne abbiano avuto cognizione? E possibile che un nostro diretto alleato abbia scelto volontariamente di non metterci al corrente di ciò che stava preparando, pur essendo coinvolto nel sequestro (e dunque nel tentativo di liberazione manu militari) un italiano?
Entrambe le situazioni pongono però un problema più generale, che va oltre la capacità d’azione della nostra struttura diplomatica o dei nostri apparati di controinformazione. E riguarda la persistente debolezza politica dell’Italia nel contesto globale: contiamo poco, non riusciamo a farci rispettare o sentire, veniamo percepiti come inaffidabili o marginali, godiamo di una fama – quella di simpatici pasticcioni, di voltagabbana opportunistici, di chiacchieroni – che ci inchioda a cliché vetusti e umilianti.
Da questo punto di vista, il governo Monti – come si è visto – ha potuto fare poco, a dispetto di certi eccessivi entusiasmi. È forse riuscito a convincere gli investitori finanziari internazionali che i nostri “fondamentali” economici sono robusti, in ogni caso diversi da quelli della Grecia o della Spagna; ma non è evidentemente riuscito a convincere governi e cancellerie del fatto che l’Italia sia capace di muoversi da protagonista e con un ruolo proprio sulla scena del mondo, che si trovi al centro di una rete solida di relazioni e rapporti d’alleanza, che abbia una sua autonoma capacità di proiezione e influenza sullo scacchiere internazionale; e che dunque vada trattato come si conviene a chi goda di un simile status.
Certo, negli ultimi due decenni ci siamo economicamente dissanguati con missioni militari che ci hanno visto presenti, con successo, nei più diversi teatri operativi; abbiamo una lunga e prestigiosa tradizione – civile e religiosa – in campo umanitario e nel settore della cooperazione allo sviluppo; siamo europeisti convinti e attivi, al punto da sacrificare in più occasioni il nostro interesse nazionale alle logiche della governance continentale; non siamo mai venuti meno ai nostri doversi di alleanza, anche quando ciò ha comportato sacrifici e rinunce (basti pensate alla recente guerra di Libia).
Ma da tutto ciò, evidentemente, non siano riusciti a trarre alcun diretto beneficio come Paese. Non sono aumentati né il nostro prestigio né la nostra capacità d’influenza né la nostra immagine. L’impressione è che l’Italia venga percepita all’estero come priva di un governo o indirizzo politico unitario: magari abitata da individui volenterosi e pieni d’ingegno ma senza che ciò si concretizzi in una volontà collettiva, in un disegno globale sostenuto da una struttura istituzionale che opera con coerenza e continuità secondo obiettivi definiti e fatti propri dalla classe politica di governo (quale che ne sia il colore).
L’Italia è finalmente tornata credibile sulla scena mondiale? La cronaca di questi giorni ci dice – purtroppo – che siamo ancora lontani da un simile traguardo.
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