di Daniele Bronzuoli
Una fortunata circostanza ha voluto che in data 5 marzo, giorno previsto per lo svolgimento della Tavola Rotonda organizzata dall’Associazione A.N.D.E. sui temi della riforma elettorale ed istituzionale, i principali quotidiani nazionali diffondessero la notizia di un accordo raggiunto dalle maggiori forze parlamentari sui progetti di rinnovamento dello Stato e modifica del sistema di voto. I richiami alla più stringente attualità hanno così potuto intrecciarsi alla enunciazione di alcune fondamentali questioni di diritto costituzionale negli interventi dei convenuti al dibattito svoltosi presso il Dipartimento di Studi Storici e Geografici dell’Università di Firenze. Coordinati da Paolo Ermini, direttore del «Corriere Fiorentino», i relatori Giovanni Sartori, Zeffiro Ciuffoletti e Carlo Fusaro si sono prima pronunciati in merito all’attualità di una riforma elettorale per poi procedere alla disamina del tema relativo alla trasformazione dell’architettura istituzionale della Repubblica italiana.
Per Giovanni Sartori il «problema all’ordine del giorno» sarebbe quello di rimuovere la legge «truffaldina» ideata da Calderoli alla vigilia delle elezioni politiche che nel 2006 consegnarono il Governo allo schieramento di centro-sinistra guidato da Romano Prodi. L’urgenza di procedere oltre il porcellum – nome attribuito dallo stesso politologo alla riforma del 21 dicembre 2006 – è data principalmente dalla distorsione che esso produce nel processo di trasformazione dei voti in seggi. È infatti noto che attualmente, in forza dello stesso premio di maggioranza contemplato dal sistema di voto vigente in Toscana, la coalizione che ottiene almeno il 35% dei consensi alle urne acquisisce 340 seggi alla Camera e il 55% di rappresentanza al Senato, venendo così automaticamente «trasformata in maggioranza».
Sebbene con motivazioni diverse da quelle addotte da Sartori, anche Carlo Fusaro si mostra favorevole ad un’ipotesi di variazione del meccanismo elettorale. Secondo il docente di scienza della politica della Cesare Alfieri infatti, il difetto principale del porcellum non risiede tanto nel «premio» quanto nel «doppio premio» di maggioranza (uno per la Camera e uno per il Senato) che troppo facilmente abbandona i due rami del Parlamento al rischio di comprendere due maggioranze diverse tra loro. Il passaggio più significativo del suo intervento sembra tuttavia essere quello in cui egli fa allusione all’anomalia italiana del «doppio rapporto fiduciario» a cui il potere esecutivo è costretto dall’articolo 94 della Costituzione. In base a tale disposizione infatti sia la Camera che il Senato possono accordare o revocare «la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale».
Di «governo atipico» parla anche Zeffiro Ciuffoletti, ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Firenze. A suo giudizio, nessuna correzione del sistema di voto può sollevare la politica italiana dall’eccezionalità di un potere esecutivo che, come nello Statuto albertino del 1848, è stato posto dai membri della Costituente sotto la tutela di un organo sottratto al consenso popolare. Se gli equilibri prodotti nella penisola dalla Guerra fredda avevano potuto occultare il carattere fortemente «interventista» attribuito dalla carta costituzionale alla figura del presidente della Repubblica, il crollo del muro di Berlino e la fine dell’omogeneità politica interna alla classe dirigente hanno invece reso palese il potenziale di instabilità racchiuso nella equivoca distribuzione di competenze tra gli organi elettivi e quelli non elettivi posti ai vertici dello Stato. Di qui l’esigenza o di ratificare tramite un mandato democratico il «presidenzialismo parlamentare», come lo definisce Sartori, attualmente vigente in Italia, o di procedere ad un rafforzamento del potere esecutivo che ponga il Paese al riparo da una drammatica instabilità e inefficienza governativa. In quest’ultima direzione sembra volgere la traccia di riforme istituzionali messa a punto nei giorni scorsi da Gaetano Quagliariello (Pdl), Luciano Violante (Pd), Ferdinando Adornato (Udc), Italo Bocchino (Fli) e Pino Pisicchio (Alleanza per l’Italia), la quale prevede il superamento del bicameralismo paritario, l’introduzione della sfiducia costruttiva, la possibilità per il presidente del Consiglio di nominare e revocare i propri ministri, nonché la facoltà per lo stesso di chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere. Ove si faccia eccezione per l’istituto della sfiducia costruttiva, che per Carlo Fusaro significherebbe «l’ufficializzazione dei ribaltoni», il progetto elaborato dai cinque esperti incaricati dai partiti che sorreggono l’esecutivo di Mario Monti trova l’approvazione dei docenti protagonisti del convegno fiorentino.
Pur tradizionalmente sostenitore del sistema uninominale a doppio turno, Giovanni Sartori, per superiori ragioni di pragmatismo, considera positivamente anche il compromesso raggiunto tra Pd, Pdl e Terzo Polo su una riforma ricalcata sul modello tedesco (rappresentanza proporzionale con soglia di sbarramento al 5%) e mitigata da correttivi di tipo spagnolo (bonus per i partiti che superano l’11% e penalizzazioni per quelli che si attestano tra il 5 e l’11%). L’importante, convengono Ciuffoletti e Sartori, è che una normativa di questo genere venga recepita insieme all’istituto del cancellierato e alle prerogative ad esso corrispondenti, pena l’esposizione del governo ai costanti ricatti delle forze parlamentari.
Considerato il lungo e farraginoso iter richiesto per le modifiche di ordine istituzionale, non c’è da sperare che queste possano essere concluse entro la fine dell’attuale legislatura, ovvero prima dell’aprile 2013. Un percorso possibile – sostiene Ciuffoletti, che qui riprende un’idea già formulata nel 2000 in un volume curato da Giuseppe Mammarella – potrebbe allora essere quello della convocazione di una nuova assemblea costituente incaricata di redigere un nuovo patto costituzionale e capace di deliberare con il sistema della maggioranza semplice. Tuttavia, commenta Sartori al termine del convegno fiorentino, «le buone costituzioni le hanno sempre fatte i giuristi». I politici infatti non possono partecipare alle assemblee costituenti se non con la preoccupazione dei «loro futuri interessi elettorali».
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