Con Aldo Moro l’Italia ha un conto aperto. La sua morte tragica negli anni della violenza terroristica, ancora oggi oggetto di un sentimento collettivo che oscilla tra la rimozione e il senso di colpa, ha fatto sì che la sua figura finisse rubricata nella sezione “Delitti e misteri” della storia dell’Italia repubblicana.
Ciò ha dunque impedito la sedimentazione di un giudizio minimamente e obiettivo sull’opera politica da lui svolta nel corso dei decenni e che lo ha visto ricoprire le massime cariche politiche: da “padre costituente” a ministro, da presidente del consiglio a segretario della Dc. Si è dovuto aspettare il 2016 per vedere comparire, a firma di Massimo Mastrogregori, una cospicua biografia che ha ripercorso, anche sulla base di materiali inediti e d’archivio, l’intera vita del politico pugliese. Un lavoro prezioso per comprendere un personaggio che ha avuto tratti in effetti enigmatici e sfuggenti (specie se raffrontato con gli altri capi democristiani) e del quale – coerentemente col suo carattere schivo e riservato – poco ancora si sa. Ad esempio con riferimento agli anni della sua formazione giovanile, alla sua attività come docente, alle sue frequentazioni fuori dal circuito della politica, alla sua complessa psicologia, alla trama dei suoi rapporti amicali e famigliari.
Ma il problema che oggi si pone con riferimento a Moro non è solo storico-interpretativo, bensì anche politico. E riguarda il possibile riflesso nell’attualità che stiamo vivendo, segnata da un’impasse delle istituzioni democratiche e da gravi lacerazioni sociali, della sua attività e del suo pensiero. Dai suoi scritti e dalle sue scelte di uomo politico e di governo si può ricavare una qualche lezione postuma?
Moro a suo tempo si è in effetti molto interrogato, alla sua maniera sovente contorta e criptica, sulla crisi del modello democratico-rappresentativo (analizzata da una prospettiva non solo italiana, ma internazionale) e sulle modalità istituzionali attraverso le quali integrare nelle strutture dello Stato le nuove istanze e necessità maturate nel corpo sociale in virtù dei processi di modernizzazione economica e socio-culturali prodottisi a partire dagli anni Sessanta.
Bisognerebbe ricordare che egli prima che un capo politico, era un intellettuale (formatosi nei ranghi dell’associazionismo cattolico) e un professore di diritto. Aveva dunque l’abitudine, per così dire professionale, di accompagnare le sue scelte politiche con l’analisi realistica dei fatti storici. Era in particolare molto attento ai cambiamenti negli equilibri sociali e negli umori collettivi e ai riflessi che questi ultimi avrebbero potuto produrre sulle istituzioni. Non sorprende dunque che fu tra i democristiani quello che più si interrogò sul significato del Sessantotto: sulle deviazioni ideologiche che ne sarebbero potute derivare, ma anche sui fermenti culturali e sulle istanze valoriali che essa conteneva e che spettava alla politica recepire e incanalare. Se un’analoga e tempestiva attenzione verso ciò che fermenta nel mondo giovanile venisse mostrata dall’odierna classe politica, quest’ultima forse non dovrebbe sopportare il discredito che invece le pesa sulle spalle.
La visione progressiva e inclusiva della democrazia italiana sviluppata da Moro nel corso degli anni, la sua idea dello Stato inteso come organismo aperto ai cambiamenti provenienti dalla società, la convinzione che la Democrazia cristiana fosse da considerare a sua volta un partito socialmente flessibile e politicamente dialogante – tutto ciò nasceva dalla sua dottrina politico-giuridica (non priva di venature organicistiche, tendente perciò a privilegiare, rispetto alle dinamiche conflittuali o antagonistiche, i processi di integrazione e di coesione sociale) e da una visione in senso lato etico-religiosa (visione che non gli impedì di restare sempre un democristiano “laico” e privo di venature clericali) che poneva il rispetto della persona umana e la libertà delle formazioni sociali alla base di qualunque struttura istituzionale e di potere.
Una visione della politica e della democrazia che sembra rendere di una qualche attualità il pensiero e l’azione di Moro, se è vero che stiamo vivendo anni che hanno visto entrare in crisi profonda i meccanismi tradizionali della rappresentanza politico-sociale e accrescersi pericolosamente le divisioni interne al corpo sociale e al ceto politico, sino al rischio della frammentazione, come si è visto con le ultime elezioni.
Naturalmente ciò non deve far dimenticare altri aspetti della sua riflessione che, oggi come allora, risultano più controversi. L’abbraccio da lui immaginato tra le due grandi forze popolari dell’Italia repubblicana, ad esempio, se da un lato aveva come obiettivo quello di integrare le masse nelle strutture legali della democrazia depotenziandone le pulsioni irrazionali (esattamente quegli aspetti della psicologia collettiva sui quali lucrano invece oggi i movimenti e leader di stampo populista), dall’altro comportava un oggettivo ingabbiamento o disciplinamento della società ad opera di due partiti – appunto la Dc e il Pci – entrambi accomunati da una visione pedagogica e interventista della politica, che poco spazio finiva per lasciare alla libertà individuale. La polemica contro le due Chiese ideologiche condotta in Italia dalla cultura laico-riformista e da una certa destra aristocratizzante e liberale, per quanto oggi dimenticata, aveva un serio fondamento. E non è un caso che il bersaglio privilegiato di questa polemica fosse proprio Moro.
Al tempo stesso, se da un lato quest’ultimo fu un teorico convinto e sincero dell’autonomia della società rispetto allo Stato, dall’altro bisogna riconoscere che arrivò con ritardo ad accorgersi della pervasività con la quale i partiti erano penetrati, sino a condizionarla anche economicamente, all’interno della società civile. Un ritardo che si tradusse, oltre che nella sottovalutazione dei fenomeni corruttivi che andavano togliendo legittimità alle classi di governo e in generale al potere, nella sua idea che la Democrazia cristiana fosse da considerare, a prescindere dalle congiunture storiche e dai suoi stessi difetti o errori, il perno insostituibile del sistema politico italiano: una sorta di partito-stato, appunto flessibile e mutevole, che poteva essere affiancato da altre forze nella gestione del potere, ma mai sostanzialmente sostituito. Da questo punto di vista, Moro non fu mai un sostenitore della democrazia dell’alternanza (che per realizzarsi in Italia, anche se in modo maldestro e instabile, ha avuto appunto bisogno, come condizione strutturale e forse anche simbolica, che la Dc si dissolvesse), ma più propriamente della democrazia consociativa.
Luci e ombre, insomma, di una personalità complessa ma che, a quarant’anni dalla scomparsa, meriterebbe un’attenzione che vada finalmente oltre gli omaggi retorici e le celebrazioni istituzionali.
* Articolo apparso sui quodiani “Il Messaggero” e “Il Mattino” dell’11 marzo 2018.
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