di Simone Ros

In questi giorni convulsi, in cui l’Italia è attanagliata dalla rovente questione degli “ostaggi”, ricorre un tragico e doloroso anniversario, sottaciuto o lasciato scorrere via con malcelato imbarazzo: l’inizio delle sanguinose rivolte in Siria e della loro brutale repressione da parte del regime monopartitico di Bashar al Assad. Non è mia intenzione analizzare i pro e contro dell’erede di Hafez (passato alla storia come l’autore della mai dimenticata strage di Hama, e non è un caso) o della frammentata opposizione alla dittatura della minoranza alawita (protetta dall’anello di ferro delle addestratissime forze di sicurezza), quanto gettare uno sguardo al di là di Damasco, levando per un attimo gli occhiali dalle lenti distorte del disattento sguardo occidentale.

È un cambio di prospettiva necessario e urgente, per non restare invischiati nella pigra panoramica a corto raggio, avvolta nella coltre rassicurante della vulgata mediatica. Dietro quelle immagini terribili e deprecabili, sventolate con legittimo orrore e disappunto, si cela una lotta per il potere e l’egemonia in grado di sconquassare l’intero Medio Oriente: le primavere arabe (o la rinascita islamica, dice qualcuno, accusando tale etichetta di banalizzante e comodo occidentalismo) hanno dato la stura ad un vortice incontrollabile di instabilità e tensioni? La caduta dei fidati “uomini forti” (quei rassicuranti Ben Ali, Mubarak e, caso a parte, il cane sciolto Gheddafi) hanno scompigliato le carte a favore di un’ondata di democratizzazione o sono solo l’anticamera di uno tsunami retrivo e islamista?

Ho recentemente partecipato all’incontro di presentazione del volume “Medio Oriente. Una storia dal 1918 al 1991” (Laterza Editore) di Marcella Emiliani, la quale ha ironicamente bollato come “fantapolitica” le assillanti elucubrazioni di quanti gettano il cuore oltre l’ostacolo azzardando previsioni a lungo termine “per cui occorrerebbe una palla di vetro”. Ciò che colpisce chiunque tenti, anche solo con un rapido volo d’uccello, di inquadrare il convulso campo di battaglia mediorientale è la fluidità disarmante e degli eventi e dei rapporti di forza: la sanguinosa lacerazione siriana, il punto interrogativo egiziano, l’avanzata dei partiti islamici al Cairo e a Tunisi, il dinamico protagonismo di Ankara, l’oscura e terribile minaccia iraniana, i timori e le contro-minacce di Tel Aviv, l’incognita irachena, il caos afghano. Cosa cova sotto le ceneri dei flop americani di Baghdad e Kabul? Possiamo permetterci di accantonare Iraq ed Afghanistan, assistendo (indignati o con pragmatico realismo) alla debacle della comunità internazionale sul dossier siriano? Dobbiamo lasciarci distrarre dai rullanti tamburi di guerra di un Iran sempre più determinato a produrre la magica bomba atomica e di un Israele sempre più pronta ad attaccarlo preventivamente per stroncare sul nascere l’aspirante Corea del Nord del Golfo Persico?

Non lasciamoci sfuggire le mosse di uno dei nuovi fondamentali attori dell’area: la Repubblica Turca di Recep Tayyip Erdoğan. Quella Turchia iperattiva, in continuo moto accelerato, alimentata dalla benzina di un prodigioso sviluppo economico, generosissime proiezioni strategiche e lo status symbol di “modello democratico”. Possiamo continuare a guardare ostinatamente ai massacri siriani come segnale esterno di un contenuto sommovimento o lasciarci trasportare dalle scariche elettriche che tagliano l’aria tra Teheran e Tel Aviv, ma dobbiamo assolutamente chiederci: che ruolo gioca Ankara nella partita? Quali sono i rapporti di Erdoğan con il brutale Assad e con il delirante Ahmadi Nejad? Tutto questo ci porta in Iraq.

È in Iraq, nello Stato del fu Saddam Hussein (che vedemmo penzolare sul patibolo e non sanguinante sul cofano di un fuoristrada, come Muammar Gheddafi) che convergono le attenzioni di chi, nell’area, ha ben presente qual è il vero scontro in atto: la Shia contro la Sunna, la radicale teocrazia iraniana (sciita) contro l’illuminata repubblica turca (sunnita), i Persiani contro gli Ottomani (come nei secoli passati). L’idea è questa: e se l’Iran stesse bluffando nel braccio di ferro atomico solamente per conquistare l’ambito status di potenza regionale? È vero che Teheran ha promesso di cancellare Israele dalle mappe e che può contare solo sulla Siria di Assad come unico alleato nella regione, ma può anche volgere gli occhi altrove: a Baghdad, laddove la maggioranza sciita ha ripreso il controllo dello Stato. L’effetto è paradossale: lo strombazzato intervento americano per “esportare la democrazia” si sarebbe in realtà convertito in un succoso regalo per gli ayatollah! Le frizioni tra Ankara e Teheran sono innegabili e meritano il giusto risalto: Salah Nasrawi scrive infatti sull’egiziano Al-Ahram che “la Turchia ha forti interessi nel suo vicino meridionale (l’Iraq) e fin dall’invasione americana del 2003 è stata il maggiore attore regionale, cercando apparentemente di bilanciare l’influenza dell’Iran sciita”. Sembra materializzarsi all’orizzonte, continua Nasrawi, lo spettro (o la gradevole prospettiva, dipende dai punti di vista) di una “mezzaluna sciita” che attraversa Iran, Iraq, Siria e Libano. Se Ankara da un lato protegge i turcomanni iracheni, dall’altro teme più di ogni altra cosa la sfrenata autonomia conquistata negli ultimi anni dai Curdi della zona settentrionale. L’obiettivo di Erdoğan è quello quindi di rilanciare il ruolo della Turchia come “power broker”, scongiurando un’ulteriore marginalizzazione sunnita. Il suo vero problema ha un nome e un cognome: Nuri al Maliki, il primo ministro (sciita) iracheno. Colpevole, secondo la Sublime Porta erdoganiana, di condurre politiche anti-sunnite culminate nel siluramento e nell’arresto con l’accusa di terrorismo del vicepresidente iracheno (sunnita, ovviamente); accuse respinte arrogantemente al mittente con l’accusa di fomentare una guerra civile e di intromettersi eccessivamente negli affari interni di Baghdad. I segnali per una irreversibile “iranizzazione” del protettorato americano (guidato dalla minoranza sunnita sotto Saddam) sono forti e sempre più preoccupanti, tanto che secondo il quotidiano turco Zaman (riporta sempre Nasrawi) già si discuterebbe di una partizione a tavolino del paese (sciiti agli iraniani, sunniti e curdi ai Turchi). È una prospettiva drammaticamente deludente (una sorta di Polonia del Golfo Persico, vittima dell’ennesimo Molotov-Ribbentropp) se pensiamo solo per un attimo alla potente narrativa messianica della missione Iraqi Freedom e alle sue promesse di trionfale democratizzazione dell’allora dittatura baathista. Attenzione: ciò non vuol dire che si sia creata una cortina di ferro tra Ankara e Teheran! I rapporti economici sono esplosi in modo esponenziale negli ultimi anni, così come non è passato inosservato il ruolo di mediazione svolto da Ankara (in tandem con il Brasile) nella delicata partita delle aspirazioni nucleari iraniane (motivo di scontro con Israele e con l’intera comunità internazionale). Lo stesso Davutoğlu continua a pronunciare la parola “dialogo”, poiché tutto dipende dalla piega che prenderanno gli eventi nei prossimi mesi.

L’analista turco Soli Ozel ha osservato che la relazione tra i due contendenti è estremamente ambigua: “si sorridono l’un l’altro, ma sono pronti a pugnalarsi” in qualsiasi momento. Vista da un’altra angolazione, è la riedizione in chiave moderna di uno scontro antico, che affonda le sue radici nelle nebbie della storia: fu infatti un trattato del 1639 a stabilire il confine tra Safavidi (iraniani) e Ottomani. Il motivo dello scontro era il controllo, guarda caso, delle pianure irachene. Oggi come allora, Ottomani e Persiani, Sunniti contro Sciiti, incrociano ancora le spade per la supremazia nella regione.

 

Commenti (2)

  • roberto scarfone
    roberto scarfone
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    Una volta la stampa italiana informava su quello che succedeva nel mondo. Oggi non più: corrispondenze chiuse, analisti in pensione. Resta solo la stampa americana. La storia dei marò che sparano a Kochi e uccidono è assolutamente inattendibile, per come viene raccontata; ancora più oscuro il rapimento dell’italiano a Orissa. Straordinaria sul New York Times oggi la storia del soldato USA che uccide in Afghanistan. Una volta in Turchia c’era l’Ansa. Oggi non più. Per sapere degli eventi in Siria bisogna leggere AFP o Reuters. Senza una stampa autorevole, com’era quella dell’Italia prima di Berlusconi, i Paesi affondano.

  • Simone Ros
    Simone Ros
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    secondo me mancano delle vere e proprie ANALISI. O meglio: bisogna andare a cercarle bene. I giornali sembrano limitarsi a riportare le notizie e gli eventi nudi e crudi, senza alcuno sforzo di approfondimento. Come può formarsi un’opinione pubblica consapevole se non ha gli strumenti per cogliere i trend in atto e o per leggere dietro le righe di un arido resoconto? Chi conosce l’organizzazione poliitca dell’India? Chi sa chi sono i guerriglieri naxaliti? Chi sa chi sono gli alawiti in Siria? Di questo passo si torna ad una comprensione elitaria, per “pochi eletti” della politica internazionale. Ma è fattibile, è giusto, è democratico?

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