di Leonardo Varasano

Secondo l’ultimo rapporto del Censis, l’Italia è un Paese alla ricerca di una nuova identità, un Paese dal profilo incerto e carico di contraddizioni. Malgrado la comunione d’intenti – positiva e a tratti orgogliosa, più volte sollecitata dal Presidente della Repubblica Napolitano – dimostrata in occasione delle celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’Unità nazionale, siamo infatti tutt’altro che un unicum indifferenziato. Il paradigma delle “due Italie”, delle diverse anime che coesistono sotto la stessa bandiera, persiste e si replica in molte varianti. Non c’è più solo la tradizionale distinzione tra Nord e Sud. C’è un’Italia provinciale che guarda a Parigi e a Berlino con ossequiosa ammirazione e spirito servile, e un’Italia volitiva, conscia e fiera dei propri mezzi. C’è un’Italia esterofila, convinta che tutto ciò che avviene altrove sia migliore – come già sosteneva Francesco De Sanctis nei suoi “Saggi critici” (1869), con specifico riferimento all’organizzazione di conferenze culturali -, e un’Italia orgogliosa delle proprie bellezze e della propria storia. C’è un’Italia autolesionista, che si compiace se lo “Spiegel” ci definisce “parassiti”, e un’Italia puntuale e laboriosa. C’è un’Italia ipocritamente votata ad impraticabili modelli di perfezione, e un’Italia concreta ed ancorata alla realtà. C’è un’Italia querula, propensa alle manifestazioni di piazza e alle proteste di ogni tipo, e un’Italia silenziosa e fattiva. C’è un’Italia corrotta e un’Italia del merito, del coraggio e delle opportunità. C’è un’Italia che crede sia rivoluzionario distruggere, e un’Italia che crede sia rivoluzionario costruire. C’è l’Italia fellona ed irresponsabile del comandante Schettino, e quella impavida e coscienziosa di Salvo D’Acquisto e Paolo Borsellino. C’è un’Italia grigia, perennemente in grisaglia, e un’Italia verde-speranza.

La seconda Italia – fiduciosa e sognatrice, troppo spesso negletta – è ben rappresentata in “Noi crediamo. Viaggio nella meglio gioventù d’Italia” (Sperling & Kupfer, 2011), appassionato, e a tratti commovente, lavoro di Giorgia Meloni. Semplice e comunicativo nel linguaggio – e anche per questo adatto ad un vasto pubblico -, il volume ha molti meriti: riconcilia con la Politica – “la più straordinaria forma d’impegno civile” -, stimola all’impegno e all’abnegazione, individuale e comunitaria.

Il libro dell’ex ministro della Gioventù (il più giovane membro di un governo dell’Italia repubblicana) raccoglie dodici storie esemplari e avvincenti, di onestà, coraggio e ribellione. Storie, spesso anonime, di uomini e donne “che non si lasciano scivolare pigramente la vita addosso, ma la prendono a morsi per scoprirne il sapore. Qualunque esso sia”. Come Simona Atzori, artista di livello mondiale, che dipinge e danza benché sia priva delle braccia dalla nascita. Come Marco e Claudia, che hanno scelto di affidarsi alla Provvidenza, di sposarsi e fare figli quando il loro futuro – così come quello di tanti altri italiani – “si decide di tre mesi in tre mesi”. Come Guido Martinetti e Federico Grom, che hanno abbandonato le loro occupazioni per inseguire un sogno: produrre gelato, il miglior gelato. E ci sono riusciti, mettendo in piedi una delle più grandi catene d’Europa, con punti vendita anche in Giappone e negli Stati Uniti. Come Carmelinda, che ha tenacemente creduto nel miracolo della vita, scansando l’ennesima delusione, sfidando i pregiudizi, non tenendo conto dei consigli di una famiglia impaurita che la sollecitava ad abortire.

“La speranza – scrive Giorgia Meloni citando Sant’Agostino – ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per le cose che non vanno e il coraggio per poterle cambiare”. L’auspicio è che l’Italia in cerca di identità non si accontenti dello sdegno ma alimenti e nutra la fiducia e il coraggio. C’è un’Italia che crede ancora: è l’Italia in cui credere.

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked (required)